Westworld 1x07 - Tromp l'oeil

Con l’appropriazione definitiva delle tecniche di riproduzione del reale, Westworld è pronta a mostrare i veri risultati della sua ricerca.

“Perché non disegnare qualcosa di nuovo?”. Una domanda, tanto candida quanto sconvolgente, illumina Westworld e la nuova alba di Dolores, dopo la notte d’amore con William. Lei che era solita dipingere paesaggi nel tentativo di imitare la realtà, abbozza finalmente qualcosa che non conosce, di cui non può vedere il corpo-immagine. Un luogo sconosciuto, sognato, immaginato. “And in that sleep, what dreams may come”, sussurra il bardo Ford nel finale di Tromp l’oeil, citando Shakespeare. Qualcosa di inatteso che nasce nel reame dei sogni e disarticola l’ordine di un mondo preconfezionato, finto, facilmente riproducibile. Qualcosa che non può ancora essere ri-costruito perché esiste solo nell’empireo della mente e nell’insondabilità dell’anima. Man mano che Dolores e William progrediscono verso la frontiera più selvaggia, dove ad attenderli c’è appunto qualcosa di inimmaginabile (che assume, però, sin da subito i connotati violenti del massacro), la libertà cui entrambi anelano si fa più palpabile e mostra l’indissolubile legame tra eros e thanatos, tra pulsione di vita e pulsione di morte, i due poli tra cui si dipana la dialettica dell’esistenza.

Dolores è una delle prime attrazioni del parco e non è casuale che una frase così pregnante – per il suo valore narrativo e metanarrativo – venga pronunciata proprio dalle sue labbra. Il loop in cui è immersa ab aeterno (potrebbe mai realmente dire da quando?), la circolarità estenuante della sua storia, la sua atavica dimestichezza con la coazione a ripetere e con l’eterno ritorno dell’uguale, il suo stesso vivere per anni sulla ribalta di questo megalomane palcoscenico che è il parco (e la vita stessa), ha finito per generare un’esperienza ben più significativa di quella cui accedono normalmente gli esseri umani: un’esperienza che gli permette di spezzare il cerchio in cui si è ritrovata per incamminarsi su una retta in grado di nascondere, come avviene nella vita dei pionieri, il suo orizzonte. E che proprio in questa tensione trova la sua stessa ragion d’essere.

A mancare era soltanto il bootstrap della coscienza cui Ford accennava nella seconda puntata, e a cui Arnold puntava prima di morire. Qualcosa che fungesse da tirante, una sorta di cordicella con cui avviare, a strappo, la parte più profonda della propria psiche, che potesse far ripartire il motore della consapevolezza: si tratta della memoria, base di quella piramide che Arnold ha ideato per disegnare il percorso di umanizzazione degli androidi del parco. E qui l’interesse e la fascinazione, o il debito, nei confronti della psicoanalisi diviene del tutto manifesto: proprio come accade nelle terapie psicoanalitiche, il riconoscimento del proprio loop, l’identificazione dei traumi e delle conseguenti nevrosi paralitiche è il punto di partenza per liberarsi dai legacci di una mimesi interminabile, dalle vesti strettissime in cui ci si infila a furia di assecondare le proprie pantomime. Lo sa Dolores, che prova ad uscire con la forza dell’immaginazione da un’esistenza predeterminata che è un unico, gigantesco loop imposto dall’esterno, e lo sa William, che nel momento in cui decide di abbandonare Logan e di tradire la promessa d’amore nei confronti della sorella del suo socio in affari, cancella di fatto la sua vita fuori dal parco, rivelatasi ai suoi occhi di giocatore/personaggio/attore in tutta la sua falsità. Così come lo sa Maeve, ormai approdata al terzo step della piramide dopo aver risvegliato la memoria e aver intuito i limiti dell’improvvisazione, a quell’egoismo che le permette di abbandonare l’amica Clementine alla sua morte (cerebrale), con la ferma intenzione di evadere dal parco e dalla sorveglianza manipolatoria dei suoi creatori per accedere alla cima della piramide.

Il paradosso di Westworld – paradosso soltanto per chi non ha inteso il fine ultimo dell’attività mimetica, di cui l’arte si serve così sontuosamente sin dai suoi albori – è che è proprio nell’immersione totale nel parco della finzione che i visitatori riescono ad intravedere un barlume di loro stessi, quel tanto che basta per innescare la deflagrazione della ricerca identitaria e sospingerli verso i nuovi orizzonti di verità che bramano così intensamente. Sono le infinite possibilità al margine delle storyline, i sentieri geometrici e lineari del labirinto,che si espandono fuori dai noiosi anelli concentrici del loop e della narrazione convenzionale, a monopolizzare l’attenzione dei personaggi nella diegesi (l’Uomo in Nero su tutti) e dei produttori e creatori della serie fuori da essa. Il superamento del trompe-l’œil che dà il titolo a questa settima, fondamentale puntata – la tecnica pittorica di stampo naturalistico che cerca di ingannare l’occhio umano inducendo l’illusione perfetta della realtà grazie ad espedienti tecnici appositamente congegnati – è il superamento della narrazione ottocentesca che buona parte dell’arte continua a portarsi dietro, un tentativo inedito di scrollarsi di dosso i lasciti del teatro borghese e di sfondare la quarta parete. È la rivolta antimimetica di una nuova avanguardia della serialità televisiva che nasce dall’ibridazione con i codici del gaming e della VR, la riappropriazione della rivoluzionaria concezione post-avanguardista della rappresentazione e non più come riproduzione del reale, ma come intuizione più profonda della cultura e della psiche umana. Ecco perché William, accanito lettore sin da bambino, necessita dell’esperienza in Westworld prima che la narrazione possa finalmente aiutarlo a trovare se stesso.

Senza smettere tuttavia di utilizzare il tromp l’oeil come cavallo di troia verso nuove forme di realismo davvero sconvolgenti, appropriandosi della potenza del falso fin nei minimi dettagli per costruire nuovi mondi, della cibernetica compiutezza del replicante per giungere al grumo sanguinolento del cuore umano. Dopo decenni di attività demiurgica, di immedesimazione nel ruolo di Dio, dopo aver padroneggiato l’arte del simulacro fino a raggiungere una perfetta interscambiabilità tra copie ed originali, tra l’uomo e la macchina, Ford-Abrams può finalmente dedicarsi a storyline che ben più mediocri Sizemore non riescono neanche lontanamente ad intuire. Che il neo rivelato robot Bernard, creazione prediletta e figliol prodigo di Ford, sia riuscito ad ingannare la sorveglianza di Theresa, fino a raggiungere la massima vicinanza all’essere umano entrando nella sfera dell’intimità sessuale, è il segno che i tempi sono maturi per questo decisivo cambio di passo. Dopo aver speso anni per giungere alla perfezione nella riproducibilità tecnica ed impadronirsi così della techne, dissimulandola il più possibile, Ford – e con lui Delos e forse HBO – possono finalmente presentare al mondo i veri risultati delle proprie ricerche e dei propri sforzi: qualcosa di nuovo e oscuro, come si diceva all’inizio.

Un’opera che, dopo aver raggiunto grazie alla perfezione della tecnica il più alto canone di bellezza estetica e formale, e aver esaurito la conseguente spinta narcisistica da sindrome di pavoneggiamento (la teoria citata da Ford che equipara la mente umana alle piume di un pavone è, a tal riguardo, illuminante), seducendo e corteggiando lo spettatore, può camminare con le proprie gambe nel mondo. Modificandone il corso – se saprà colpire forte, come Bernard – come mai avremmo pensato fosse possibile.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 18/11/2016

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