Westworld 1x01 - The Original

La premiere HBO sorprende per densità di argomenti e consapevolezza dei temi messi in campo, tra i quali spicca la narrazione digitale del mondo videoludico.

Alla fine, è il giocatore che vince sempre.

L’intuizione più importante offerta dalla premiere di Westworld viene servita a chiare lettere da una delle scene più intense di The Original: la celeberrima rapina in banca, topos western riscritto per l’occasione dagli sceneggiatori del parco divertimenti.

La sequenza dovrebbe chiudersi con la pubblica arringa da parte del carismatico capo dei banditi, ma il tutto viene interrotto sul più bello dallo sparo di un giocatore, che fa prendere una nuova e inaspettata piega alla storia interna all’attrazione.

E’ la narrazione interattiva bellezza, imbastita e scritta dagli autori/programmatori/sceneggiatori ma poi manipolata dagli utenti.

Sul ruolo cruciale che Westworld avrà per il futuro dell’HBO si è già detto in queste pagine, analisi che Attilio Palmieri ha dedicato a quella che è stata a lungo definita la regina delle reti tv americane.

Qui piuttosto vogliamo concentrarci su un particolare aspetto della sfida intrapresa dalla squadra di Jonathan Nolan, ovvero la difficoltà nell’adattare un cult di fantascienza un tempo visionario ma oggi parte integrante della nostra contemporaneità narrativa. Il mondo dei robot vive il lungo destino di chi arriva prima degli altri: cristallizzarsi nella tessitura del genere, divenendone tassello basilare per molte future costruzioni. Come ricavare un discorso di nuovo contemporaneo e attuale da una materia che ha fatto la Storia?

Di certo non con una semplice resurrezione, bensì con un ricollocamento dei suoi elementi cardine. Westworld si nutre ovviamente del discorso meta-cinematografico che era alla base del suo genitore, il passaggio che Hollywood stava affrontando dai generi classici alla fantascienza adulta, come certo appare centrale la dicotomia fondamentale a tutto il lavoro di Michael Crichton, quel rapporto sempre critico tra ragione e natura, controllo e caos.

Tuttavia l’aspetto che più colpisce di questa premiere – e che meglio ne riattualizza i discorsi – riguarda la giocabilità, un tema rimasto sottopelle nel film originale, in potenza ma non ancora in atto, e che HBO pone invece al centro della sua versione. I clienti di Westworld non sono più semplici visitatori, ma veri e propri giocatori, uno slittamento che potrà sembrare poca cosa ma che invece permette di sovrapporre alla rete di citazioni del canone più colto della fantascienza occidentale (Asimov, Dick e Clark su tutti) un ulteriore livello di riferimenti, vera e propria rete neurale i cui snodi coincidono con la massiccia evoluzione intrapresa dall’esperienza videoludica negli ultimi decenni.

Lo storytelling videoludico è una forma narrativa in costante evoluzione e con la quale chiunque si occupi di narrazione dovrà presto o tardi fare i conti. Una delle direttrici più interessanti di questa crescita riguarda il cosiddetto open world, ovvero il tentativo di offrire al giocatore non più una progressione a livelli ma un intero mondo da esplorare, una realtà alternativa completa nei suoi elementi geografici e culturali, aspetti che assieme a personaggi dotati di identità e routine personalizzate si uniscono nel creare un’ambientazione più o meno distante dal mondo vero. In questo tipo di giochi sono le azioni del giocatore a generare la narrazione, definita da come egli si muoverà e interagirà con le infinite trame messe a disposizione dai programmatori, centinaia di storyline che possono essere seguite, deviate o bellamente ignorate. E nelle quali si può agire perseguendo la strada del bene come quella del male assoluto.

In una riconfigurazione estremamente consapevole Westworld ci parla proprio di questo, unendo i punti che vanno dalla violenza di GTA all’esplorazione di Elder Scrolls, passando per gli allineamenti variabili di Star Wars: Knights of The Old Republic. A Westworld un centinaio di narrazioni procedono interconnesse tra di loro, tra scrittura e spazio di improvvisazione, una rete colma di ami fatti per agganciare il giocatore, che a quel punto potrà interagire con esse come vuole. Il tutto mentre lo sguardo panoptico dei programmatori osserva dall’alto la mappa a forma di iride che racchiude il mondo alternativo.

La centralità che questa premiere offre alla narrazione interattiva rende Westworld quando di più vicino si sia mai visto al concetto di realtà virtuale applicato alla memoria del cinema attraverso la sua manifestazione fisica. Il virtuale qui non vive più nelle mente di chi si connette alla rete per esperire il gioco, ma riguarda la completezza del mondo che lo circonda. Gioco di ruolo digitale, in cui programmi resi carne ripetono narrazioni prefissate adattandole alle circostanze. Una prospettiva rovesciata rispetto alla virtualità dell’occhio artificiale, più vicina piuttosto al gioco della carne di eXistenZ. Non sorprende allora che l’altro grande tema di The Original sia la ripetizione, il loop in cui sono intrappolate le intelligenze artificiali, programmi si personalizzati e dotati di capacità di adattamento, ma comunque personaggi di una storia che ripete sempre sé stessa. In questo senso il personaggio interpretato da Jeffrey Wright è una palese dichiarazione d’intenti, il suo Bernard Lowe una citazione vivente di quello che sostanzialmente era il suo stesso personaggio in Source Code. Come avveniva già nel bel film di Duncan Jones, anche qui è la ripetizioni la cifra fondamentale della narrazione, la stessa che anima un titolo per certi versi simile come Edge of Tomorrow, non a caso altro film dalla struttura apertamente videoludica. Nel binomio tra ripetizione e libertà di scelta si muove il videogioco di oggi e con esso Westworld, lungo un asse che al momento pone ai suoi poli uomini e androidi, ben lontani e differenziati, ma che presto vedrà probabilmente crollare tale equilibrio.

In conclusione The Original è una premiere che sorprende per densità di argomenti e consapevolezza dei temi messi in campo, che si limita ad accennare i suoi personaggi e i conflitti che li animano preferendo restituire con indubbia forza espressiva il contesto in cui si muovono. Dovendo giudicare da questo primo episodio, Westworld promette di essere un’acuta riflessione sulla narrazione e la fantascienza di oggi, un mondo di formiche elettrice pronte a giocare coi propri nastri di coscienza.

«Neanche tu sei reale» rispose a Sarah. «Tu sei un fattore di stimolo nel mio nastro della realtà. Un foro che può essere coperto di vernice. Esisti anche in un altro nastro di realtà, oppure esisti in una realtà oggettiva?» Non lo sapeva; non poteva dirlo. Forse non lo sapeva neanche Sarah. Forse lei esisteva in un migliaio di nastri di realtà; forse in tutti i nastri di realtà che fossero mai stati realizzati. «Se io taglio il nastro» disse lui «tu sarai dappertutto e in nessun luogo. Come il resto dell’universo. Almeno fin quando io ne sono consapevole.»

Philip K. Dick – Le formiche elettriche.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 07/10/2016

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