Westwolrd 1x02 - Chestnut

L’arrivo a Westworld: le dimensioni del luogo dove tutto è concesso.

“Svegliati Dolores”

Le quattro dimensioni della violenza e della sua partecipazione. Altezza, larghezza, profondità e tempo. Prendiamo Westworld, solidifichiamone il contenuto in un dimensione geometrica, in una forma cubica, dentro ad un perimetro quantificabile cartesianamente. Larghezza (x) come la dimensione dello spazio di gioco, il territorio da esplorare, il limite imposto dalle scelte narrative, un confine valicabile, vasto al limite dell’infinito, un open world con dei luoghi segreti che solo pochi giocatori, con il tempo e con l’affezione al gaming, arriveranno a conoscere. Come quel labirinto ai confini della mappa, disegnato sullo scalpo di un robot, che oltre ad essere la giusta meta per un visitatore violento rappresenta una nuova linea narrativa, forse ben al di là delle regole del gioco. Altezza (y), come la verticalità decisionale del mondo di Westworld. Dall’intersezione con la larghezza, dal punto zero del gaming al dietro le quinte, a Delos come veniva chiamata la compagnia da Crichton nel film del 1973. Ordinata questa capace di muoversi nello spazio dell’infinita possibilità narrativa, nel territorio dello storytelling, della messa in scena, della conoscenza, al limitare del mondo della metafora e dell’archetipo, con presupposti divini, di creazione seriale e cosmogonica. Non più una realtà di quadri e bottoni analogici, di schermi catodici e computer a valvole ma un mondo diviso tra il bianco ed il nero, asettico e modulare, trasparente come le sue pareti e le sue vetrine, trasparente come la libertà di fare tutto ciò che può passare nella testa del visitatore; un luogo di passaggio, un corridoio con uno specchio carrolliano sul fondo che porta dentro al vagone di un treno diretto nel luogo dove tutto è concesso. Non più quindi una quinta ben fatta legata alla manifattura dello Studios System ma un luogo digitale, virtuale, amplificato. E in questo spazio quattro personaggi che stanno al di sopra di tutto e che tutto gestiscono, un quadrilatero demiurgico creatore di un mondo orientato verso il basso, verso il divertimento e il patimento di natura gnostica. Il creatore demiurgo (Anthony Hopkins) con la sua saggezza e conoscenza, con il suo veto decisionale ed operativo; il regista (Jeffrey Wright) con l’attenzione posata sulla riflessione della magia della vita, su quella sfumatura che coincide con un aggiornamento del sistema operativo, su quel dettaglio capace di rendere più umano dell’umano un robot di silicone. Il produttore esecutivo (Sisde Babett Knudsen), il trait d’union tra i vari personaggi e i loro caratteri (e/o caratterizzazioni), lei il capo della sicurezza e il suo braccio destro operativo interpretato da Luke Hemsworth, ed infine lo sceneggiatore o showrunner (Simon Quarterman), fautore della deriva violenta e dei sogni, o dei ricordi crudeli che renderanno consapevoli i robot della loro natura. Quattro identità proprie della storia come personaggi giocati ma proprie anche di chi definisce la storia, di chi la può raccontare attraverso l’elemento del drama su di una narrazione via cavo. Profondità (z) come lo spessore della storia, le varie stratificazioni di senso e significato, i vari punti scopici attraverso i quali vedere per capire, interpretare personaggi e situazioni. La densità di argomenti trattati, legami che intercorrono tra la violenza al piacere, dall’intepretazione del ruolo in un mondo tanto fittizio quanto determinato alla fuga dalla realtà, dal gaming al creating, dal ritorno ad un genere viscerale, nonché spesso sopito, per lo spettatore americano come il western unito alla fantascienza in grado di aprire spiragli su grandi tematiche umane ed universali. Tempo (t) come quello che passa tra il film e la serie, una riscrittura moderna e stratificata di una storia già raccontata. E se la prima puntata ha definito i contorni, descritto il territorio e la disumanizzazione delle macchine attraverso la coazione a ripetere la stessa storia, Chestnut sempre più si scende tra le zone d’ombra del genere umano, tra sguardi nel vuoto e sul buio dell’animo capace di generare la vendetta (e l’umanizzazione) dei robot. L’inizio della puntata procede di pari passo con l’inizio del film del 1973, due visitatori vengono trasportati (non più in hovercraft ma in metro) dentro al mondo di gioco. Punto di contatto questo di una narrazione che torna a ripetersi, che sostituisce al termine legato all’osservazione, il vedere, la necessità della virtualizzazione, il provare. E se Dolores svegliandosi trovasse una pistola sepolta capace di ferire un visitatore? Sarà forse questo l’inizio della loro vendetta? L’arma necessaria a dar voce alla loro collera?

Autore: Giorgio Sedona
Pubblicato il 14/10/2016

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