Á vot’ bon coeur
Á vot’ bon coeur è il racconto di un film negato, di un vuoto, di una impossibilità, di un totale annichilimento intellettuale, emotivo, espressivo, artistico.

Presentato nella sezione Quinzaine des Réalisateurs al cinquantasettesimo Festival di Cannes, Á vot’ bon coeur del francese Paul Vecchiali è un esperimento dal sapore irriverente, amaro, ironico, che coniuga meta-cinema e autobiografismo. Considerato un regista “post Nouvelle Vague” – nel senso che venne apprezzato e conosciuto, soprattutto in Italia, subito dopo la “nuova ondata” dei Truffaut e dei Godard – Vecchiali è un cineasta più che prolifico, autore anche di molti lavori per la televisione. Finora purtroppo poco distribuito in Italia, il regista sarà ospite del MedFilmFestival (che si terrà presso la Casa del Cinema a Roma, nel mese di luglio) per presentare la sua ultima opera Faux Accords.
Se tendenzialmente Vecchiali privilegia il melodramma (pensiamo ai suoi film più noti come Femmes, femmes, Corpo a cuore, Una donna per tutti, Once more – Ancora) con Á vot’ bon coeur naviga in tutt’altra direzione: c’è l’amore e c’è (soprattutto) la morte in questo film, ma tutto si stempera in un umorismo acre e bruciante, in una prospettiva quasi surreale dove il paradosso è la regola, e l’assunto finale è in un certo senso nichilista; l’atmosfera, insomma, più che tragica appare in ultimo grottesca. Vecchiali mette in scena se stesso, come uomo e come regista, miscelando gli eventi della propria vita agli spezzoni di un film che sta girando (un insolito musical che racconta l’amore lacerante tra due tossicodipendenti). Evento cardine della narrazione è il rifiuto netto e indiscutibile, da parte della commissione predisposta, a finanziare il film di Vecchiali già in fieri. Cosa fare? La via d’uscita da questa incresciosa situazione spinge definitivamente il film nella direzione del tragicomico: per vendetta, Vecchiali – aiutato dalla troupe che lo sostiene fedelmente – decidere di uccidere a uno a uno tutti i membri della commissione “incriminata”. Nel frattempo, Á vot’ bon coeur mette in scena anche la vicenda di un novello Robin Hood sui rollerblade, che non parla mai ma agisce con determinazione e fermezza per rubare ai ricchi a donare ai poveri.
In una società che – detto in parole povere – antepone il profitto alla cultura, certamente non c’è spazio per l’arte. Peggio ancora: anche laddove arte, cultura e profitto potrebbero fruttuosamente coincidere e coniugarsi (nel senso che il cinema è espressione di un sentire autoriale ma anche oggetto, prodotto commercializzabile) il protagonista si trova davanti un muro invalicabile. Ecco allora che Á vot’ bon coeur (dove quasi nessuno mostra di avere il “buon cuore” del titolo) è il racconto di un film negato, di un vuoto, di una impossibilità, di un totale annichilimento intellettuale, emotivo, espressivo, artistico. E’, soprattutto, un atto d’accusa scandito a chiare lettere, il cui assunto finale non viene tuttavia sminuito dai toni ironicamente beffardi che caratterizzano la messa in scena. Occhio per occhio, il protagonista vuole insomma togliere la vita a chi ha condannato a morte la sua creazione, ma non troverà alcun risarcimento nella vendetta, come mostra il finale in cui l’indifferenza e il nichilismo trionfano su ogni cosa. Quello che resta è il ritratto impietoso di una dimensione socioculturale stantia, rigida, dominata dalla diffidenza, dalla sfiducia verso il nuovo, dalla paura di osare. Lo sanno bene tutti quei registi (probabilmente in Italia ancora più che in Francia) che, sebbene capaci di uno sguardo a volte estremamente profondo, originale, fresco (o forse proprio per questo?) faticano a trovare il loro spazio espressivo – o meglio lavorativo in senso di produzione/distribuzione – in un panorama culturalmente piatto e immobile.