Venezia 72 / Wednesday, May 9

Al di là del coraggio dell’autore, fatto mai trascurabile e sempre rimarchevole, non si presentano elementi di sostanziale novità o interesse rispetto al canone del film iraniano da festival.

Teheran, un giorno come tanti. L’annuncio di un uomo pronto a donare 10.000 dollari ad una persona bisognosa scatena il delirio nelle strade. In centinaia accorrono sotto la sua abitazione, invocando il prezioso contributo. Tra la folla vediamo gente di ogni tipo: bambini, donne, mendicanti, malati: tutto il sommerso di un paese in rapida espansione economica eppure ancora dilaniato da forti disparità economiche e sociali. Nel caos si distinguono due donne: Leila, ex fidanzata del benefattore, sposata con un uomo affetto da una grave malattia neurologica, curabile solo con un costoso intervento chirurgico; e Setareh, diciannovenne incinta che deve pagare il risarcimento richiesto dalla sua famiglia ai danni del marito, reo di aver sposato in gran segreto la ragazza, e soprattutto di aver colpito il cugino di lei in seguito ad una rissa in strada.

Al di là dell’originale e invero un po’ forzata soluzione narrativa, siamo ancora dalle parti del cinema sociale e di denuncia iraniano che abbiamo imparato a conoscere e (spesso ma non sempre) ad apprezzare nei festival internazionali, in primo luogo a Venezia, che negli anni si è distinta proprio nella scoperta di numerosi autori persiani, quali ad esempio Jafar Panahi che nel 2000 si portò casa il massimo riconoscimento con Il cerchio, oppure Babak Payami, che l’anno seguente vinse il premio speciale per la miglior regia con Il voto è segreto. Insomma, niente di nuovo dal fronte orientale: le donne continuano a subire le angherie degli uomini e delle famiglie, mentre nelle strade continuano a consumarsi ingiustizie di ogni tipo. E il cinema? Ecco diciamo che al di là dell’innegabile coraggio dell’autore, fatto mai trascurabile e sempre rimarchevole, non si presentano elementi di sostanziale novità o interesse rispetto al canone, anzi, a tratti si avverte una certa stanchezza nel modo in cui si evolvono le due linee narrative – tanto esemplari quanto innocue – e soprattutto nella messa in scena, sintonizzata sui soliti standard mimetico-neorealisti. Che poi a pensarci bene non è neanche un problema di originalità, aspetto che non ci ha mai interessato più di tanto (vedi alla voce Equals, l’ultimo in ordine di tempo). La questione è un’altra e riguarda semmai la temperatura emotiva dell’opera, quasi sempre sotto il livello di guardia (o, per rimanere nella metafora climatica, in linea con le temperature stagionali di questa Venezia 72). E non bastano di certo urla e lacrime, amori contrastati e mogli devote, ricordi lontani e dolori vicini a produrre scossoni o scarti inattesi. Anzi, al contrario sembra che tanto più i personaggi subiscono le insidie del destino e tanto più perdono consistenza, rivelandosi alla fine in tutta la loro evidenza metaforica, come se si fosse invertito per errore il processo di costruzione filmica che dalla teoria (la parola scritta, la sceneggiatura) porta alla prassi (l’immagine, il movimento). In una parola: evanescente.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 07/09/2015

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