Venezia 72 / Un monstruo de mil cabezas
Apertura di Orizzonti a Venezia 72 con l'ennesimo film di genere soffocato da una cornice formale in cerca di riconoscimenti autoriali ma priva di autentica sostanza

In un mondo dominato dal denaro la bestia dai mille volti non è soltanto l’insieme di coloro che per interesse e guadagno giocano con le vite degli altri, ma siamo tutti noi che viviamo a contatto con tale meccanismo, coinvolti nostro malgrado in dinamiche che ci sovrastano e all’interno delle quali operiamo dal centro della nostra prospettiva. Succede però che questo punto di vista possa venire infranto da una forza esterna e accidentale, una violenza che cerca di opporsi al meccanismo spinta dall’amore per la propria famiglia, anche se il tentativo è disperato e condannato a fallire.
Un monstruo de mil cabezas – apertura della sezione Orizzonti di questa 72esima edizione veneziana – nasce da uno spunto estremamente interessante: raccontare gli atti di un processo attraverso un totale fuori campo, una separazione spazio/temporale che mostri allo spettatore solamente i flashback delle testimonianze, sequenze che si susseguono anche sovrapponendosi e sulle quali operano le voci apparentemente extradiegetiche dei vari personaggi, registrati in tribunale. Ne esce una narrazione ad incastri che segue le gesta della protagonista Sonia partendo sempre dalle persone che intercetta nella sua disavventura, punti di vista divergenti che ogni volta resettano brevemente il contesto per poi ritornare subito alla donna.
Con la dignità e la forza proprie di chi pretende soltanto di ottenere ciò cui ha diritto, Sonia sta cercando da tempo di accedere alle cure adeguate per il marito, malato di tumore. A sbarrarle la strada il divieto dell’assicurazione medica, che si accanisce nel rifiutare la sua richiesta di assistenza nonostante non ci siano motivi validi per respingerla. Arrivata al limite, Sonia decide di visitare un’ultima volta il suo medico assicurativo, questa volta portandosi dietro il figlio e una pistola. Il risultato sarà una lunga odissea tra ostaggi e incidenti e circostanze che si aggravano, una situazione dalla quale non c’è via d’uscita se non continuare dritti lungo la propria strada, fino alle ultime conseguenze.
Visto già a Venezia nel 2007 con La zona – premiato allora come miglior esordio – Rodrigo Plà è un regista uruguaiano cui non manca certo il mestiere, peccato però che senta la necessità impellente di ricordarcelo in ogni scena del film. Appesantito da un impianto formale apparentemente ricercato ma nella sostanza vacuo e altezzoso rispetto alla natura di genere del film, Un monstruo de mil cabezas rovina i suoi bei presupposti nei tentativi costanti di sfoggiare un respiro “autoriale”, quando quello che fa Plà è semplicemente individuare un’unica idea di messa in scena e reiterarla per tutta la durata del film. Le prime scene infatti svelano uno sguardo al lavoro sul fuori campo e la distanza, una serie di piani fissi che intrappolano la protagonista in una costruzione formale molto fredda, manifestazione concreta della gabbia che la circonda e delle pareti che sempre più si stringono attorno a lei. Tuttavia rimanere fedeli ad una soluzione del genere per tutto il film significa alla fine restare a distanza di sicurezza dalla storia e soprattutto dai propri personaggi, sacrificati sull’altare di un’identità festivaliera d’autore che appiattisce la narrazione piuttosto che valorizzarla.
Il risultato è privo di ritmo interno e di autentica emozione, ma la conseguenza più grave è nel rapporto tra Sonia e lo spettatore, legame pressoché vacante e reso impossibile dal filtro voluto da Plà, intenzionato a trasformare il suo film in un acquario lontano piuttosto che in una vicenda capace di emozionare nella sua portata di disperazione e follia.