Venezia 72 / Mountain

Nella sezione Orizzonti di Venezia 72, una moderna fiaba di perdizione che apre profonde crepe nella demarcazione tra carnefice e vittima, sacrificio espiatorio e eternità della condanna.

C’era una volta ( e c’è ancora a Gerusalemme) la Montagna degli ulivi, ove sorge il più antico cimitero ebraico del mondo. Luogo e incrocio sacro di ben tre religioni monoteiste, nonché meta di un forte turismo culturale.

Le sacre scritture predicono che sarà di lì che il divino discenderà per donare la resurrezione dei morti alla fine dei secoli. Con gli stessi toni solenni ma essenziali della rivelazione illustrata dogmaticamente ai bambini, la regista Yaelle Kaiam , alla sua opera prima, sceglie di narrare una fiaba moderna di perdizione, ambientata nel cuore di questo fitto bosco di lapidi, dove di giorno regna il silenzio, la devozione e il rispetto reciproco tra i visitatori, ma di notte vi trovano piacere anime dannate, i cui gemiti e sospiri possono squarciare l’animo più puro come saette, folgorandolo nella più recondita oscurità, sino ad incenerirlo.

In Mountain, in concorso nella sezione Orizzonti di Venezia 72, proprio alle pendici del regno della morte balena la luce di un focolare domestico, la casa del custode, che con la sua famiglia, moglie e quattro pargoli, celebra nell’educazione e nell’unità edificante della preghiera a tavola e prima di andare a letto (letti separati si intende) la fede e la predicazione come unica missione e ragione di vita. È l’angolo dei vivi ed è l’unico limen possibile in cui possa insinuarsi una crepa in quel paesaggio petroso. Fenditura, in cui può darsi lo scandalo, nel suo etimo antico di “pietra fuori posto”, fuori dall’ordine dei ruoli e delle prescrizioni inviolabili. Il pericolo di inciamparvi e cadere … nel peccato.

Tzvia, la madre, sente di aver perso il più intimo senso del suo essere donna, personalità amante il proprio uomo nella simbiosi dei corpi desideranti e affinità degli animi, così nella solitudine che sola le resta, quando i figli sono a scuola e il marito prende a rincasare sempre più tardi dal lavoro, si abbandona a lunghe passeggiate e poesie tra i sepolcri, destata soltanto dalla concessione di un breve saluto al becchino, che cortese ( ai limiti dell’accezione letteraria) le confida l’impossibilità di amare.

Nella distanza coniugale, sempre più incolmabile tra le mura domestiche, il tempo dell’allontanamento si dilata sino ad abbracciare la notte insonne e Tzvia, indossati gli abiti scuri, in netto contrasto con quegli diurni, bianchi e candidi di madre premurosa, s’addentra nel baratro di rovine che circonda il proprio animo - dimora, precipitandovi dentro.

Lo sgomento che in quel giardino funebre, uomini viziosi e prostitute consumino oscenità, come zombi tra le tenebre, è l’andirivieni di non ritorno a se stessa.

La vista avida di Tzvia né è inesorabilmente attratta, tanto da tornare la notte successiva munita di binocolo (quello stesso che la famiglia usa, per ammirare la magnificenza panoramica, che si estende dal monte). L’infezione che passa dagli occhi, che prima sfamavano l’animo di preghiera e poesia, è già in atto.

Tzvia scopre dei topi in cucina e presagisce la necessità dell’avvelenamento. Ma non ancora per chi. Intuisce bene invece che la sua irresistibile discesa dal limbo agli inferi non può che consumarsi attraverso un altro tipo di lussuria, l’unico piacere che è sempre stata autorizzata a concedere alla luce del sole: il cibo. La madre che per natura e dovere sociale può donare o armarsi della somministrazione del nutrimento.

In fondo il veleno per topi è stato già riposto in dispensa. Tzvenia finalmente può sporcarsi con l’immoralità senza nulla temere, perché offre alla banda di dissoluti pasti caldi in cambio di un impassibile voyerismo. Tuttavia a raggelarle le vene, sarà piuttosto la ferita verbale infertale da una delle donne schiave di questo sudicio teatro speculare. L’umiliazione di essere lì a bramare ed invidiare la denigrazione, trafigge la lucida freddezza e Tzvenia definitivamente comprende come mettere a tacere l’ossessione prevaricatrice, “servendo(si)” (del)la sovversione del potere. Epilogo che Yaelle Kaiam preclude invece alla coscienza dello spettatore, che sa del veleno e sa che la protagonista ancora preparerà la cena per la famiglia e per le prostitute, ma non saprà della ridefinizione della demarcazione tra vittima e carnefice, tra sacrificio espiatorio e eternità della condanna, e può solo rammentarsi dei versi che Tzvenia più amava recitare. Perché sorprendersi della morte che in fondo silente è sempre stata al suo fianco?

Autore: Carmen Albergo
Pubblicato il 08/09/2015

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