Venezia 72 / Man Down

Melò bellico senza controllo, sgrammaticato ed eccessivo, ma capace di raccontare con forza unica il dramma del reduce contemporaneo e assieme l'amore impossibile di un padre.

“War is coming home”.

Per quanto l’11 settembre possa segnare la natura dell’era contemporanea, sarebbe ingenuo da parte nostra pensare che siano necessari attacchi del genere per portare la guerra all’interno di un paese. All’America non è mai servita la ferita subita sul proprio territorio nazionale per assimilare i tratti violenti e schizofrenici del conflitto bellico, e le centinaia di reduci che popolano il cinema a partire dal noir anni ‘40 ne sono una delle più evidenti dimostrazioni, primi vettori di un contagio che dal campo di guerra si inocula nel territorio nazionale.

Come fosse un’infezione, la guerra viaggia dentro la mente e i corpi di chi l’ha vissuta e finisce inevitabilmente per riaffermarsi una volta che il reduce è tornato a casa: sindromi post-traumatiche, crolli psichici, crisi dell’identità. Il cinema del “ritorno a casa” non può fermarsi allora all’analisi delle difficoltà che derivano dai tentativi di reinserimento nel proprio contesto sociale, ma deve riguardare anche il portato di violenza acquisita durante la guerra. La stessa violenza che invade regolarmente certo cinema americano dopo la Seconda Guerra Mondiale e durante la guerra in Vietnam, focolai di un’infezione che si propaga spesso attraverso le maglie del genere, in narrazioni apparentemente estranee al campo di battaglia (western crepuscolare o poliziesco che sia, Il mucchio selvaggio o L’anno del dragone).

Man Down di Dito Montiel è esattamente questo, la prosecuzione contemporanea dell’odissea del reduce, intesa anzitutto come confronto con la capacità acquisita in guerra di esercitare la violenza.

Suddiviso in diversi piani temporali, Man Down è una lunga seduta psicanalitica che esonda nel delirio di una mente instabile, priva di punti di riferimento, totalmente impossibilitata a rientrare nei canoni della società. Uno stato psichico che si rovescia nel racconto di un prossimo futuro post-apocalittico, in cui gli Stati Uniti sono invasi da nemici stranieri e virus invisibili, e l’unica cosa che conta è battersi per ritrovare la propria famiglia.

Da questo contesto Montiel ricava momenti in cui il trauma bellico del paese che attacca sé stesso viene visualizzato con una forza che troppo cinema americano contemporaneo non riesce neanche ad immaginare, un’energia esplosa che sembra il contraltare perfetto del discorso avviato dal finale dell’American Sniper di Eastwood, in cui la scheggia impazzita uccide l’eroe controverso rendendolo mito. In Man Down il portato del trauma è talmente grande da non permettere l’esistenza di nessun controcampo, la prospettiva si fa soggettiva allucinata e dall’interno di essa il reduce diventa esso stesso cane impazzito, animale selvaggio pronto ad attaccare la propria casa. Nel discorso di Montiel saltano tutti i ponti che una mente può mantenere con la realtà, tranne quello dell’amore filiale, del rapporto tra un padre e un figlio, che continua a vivere a discapito di tutto, anche di un Paese che cerca di uccidersi da solo.

Come se per Montiel fosse necessario porre un limite, una barriera morale e umana agli effetti che la guerra può avere sulla psiche del reduce, il rapporto tra il Gabriel di Shia LaBeouf e il figlio Jonathan è l’ultima condizione di umanità possibile, la rete di sicurezza oltre la quale brucia soltanto una follia di distruzione assoluta. Il rapporto padre-figlio è talmente fondante nell’universo di Man Down da diventare melò a cuore aperto, ma del resto tutto il film cresce sopra le righe, raggiungendo livelli di intensità tanto plateale da sfiorare il kitsch. E tuttavia è difficile resistere alla presa emotiva del film, e tutti i suoi eccessi e le scene caricate e rimontate più e più volte come incubi in loop, tutte le sue immagini estremamente sature e viscerali e il porsi a cuore aperto sull’altare del giudizio di fronte allo spettatore giocoforza spiazzato, tutto questo alla fine funziona, e maledettamente bene nel restituire sulla pelle viva la portata devastante di un amore più grande del mondo e della follia che lo genera.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 10/09/2015

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