Venezia 2013 / Wolfskinder

I Wolfskinder che danno il titolo al film sono bambini orfani che, alla fine della Seconda guerra mondiale, si trovano costretti a scappare di casa alla ricerca di una nuova vita in territorio straniero. Siamo nel 1946, nella Prussia Orientale, dove il neo-occupante governo dell’Unione sovietica ha vietato ai tedeschi della zona di abbandonare i propri villaggi, esattamente come era stato imposto dalla Germania nazista due anni primi. Nelle fattorie appena saccheggiate dai russi non ci sono più viveri, e la maggioranza degli abitanti della zona muore sotto i bombardamenti o a causa di malattie e carestie. Esattamente come tanti altri loro coetanei, dopo la morte della madre malata Hans e Fritz non hanno più nessuno. Su suggerimento della madre stessa, l’unica scelta da fare rimane la fuga in Lituania, verso una fattoria di contadini amici di famiglia. Comincia così Wolfskinder, opera prima del regista tedesco Ricky Ostermann presentata nella sezione Orizzonti.

Il percorso dei due fratelli verso la sopravvivenza, però, si divide quando si trovano a scappare in direzioni diverse dai soldati dell’Armata Rossa, attenti a fare in modo che nessuno oltrepassi il confine con la Lituania. Per Hans, il più grande, comincia una lunga odissea: senza il fratello più piccolo Fritz, di cui non ha più notizie, incontra altri orfani nelle sue stesse condizioni, con cui cerca di fare gruppo per sopravvivere nella natura selvaggia. I bambini diventano subito “Wolfskinder” randagi, dei bambini-lupo che lottano istintivamente e senza speranza per una nuova vita. Gli orfani si muovono in branco, e si procacciano il cibo come dei primitivi, uccidendo e mangiando animali crudi senza distinzioni. Nella loro condizione istintiva non sembra esserci spazio per le emozioni, tantomeno per la fantasia idilliaca che dovrebbe contraddistinguere la loro condizione fanciullesca. L’unico brandello di immaginazione è rappresentato da un libro che Hans porta sempre con sé, sporgente sotto il maglione, e apre quando può nei momenti di riposo. Ama proiettarsi in terre lontane, immaginando arcipelaghi di isole che lo allontanano dalla condizione precaria del quotidiano. Wolfskinder porta al suo estremo il romanzo di formazione, abbandonando la dimensione retorica e fiabesca della guerra vista dagli occhi dei bambini. Gli occhi dei “Wolfskinder”, infatti, sono già spenti e senza speranza, perché la guerra e la fame rappresentano la normalità della loro circostanza.

Appena entrati in Lituania la maggioranza di loro viene respinta dalle famiglie locali, a causa della già effimera condizione economica in cui quest’ultime versano, ma soprattutto per il pericolo che corrono nell’ospitare tedeschi. Per questo, soltanto pochi trovano accoglienza, a patto che si rinunci alla propria identità, fingendo di essere lituani, cambiando nome e lingua, ma soprattutto rinnegando la propria “terra madre”, “così tanto spiritualizzata dall’ideologia nazista. Hans sembra resistere alla perdita della propria identità in virtù del ciondolo della madre, che porta sempre al collo e che spesso brandisce come un amuleto. L’oggetto materno, in mancanza del fratello minore, gli ricorda costanemente di avere delle radici. La mamma sul letto di morte li ha già indirettamente invitati a non perdere la propria identità: poco prima di morire, infatti, la donna costringe i due figli a ripetere il proprio nome e cognome, come fosse un mantra. Ma i due fratelli, pur rincontrandosi, prenderanno percorsi diversi, e Hans stesso in un’emozionante scena finale continuerà a ripetere il proprio nome, quasi a non volerlo dimenticare, dopo tanto pericoloso naufragare alla deriva. Parlando soltanto la loro lingua, gli orfani non riescono a capire i pochi lituani che cercano di comunicare con loro, avendo allo stesso tempo paura di farsi riconoscere come tedeschi. Ma la maggioranza dei “Wolfskinder” non parla per scelta, e il linguaggio verbale viene ridotto da Ostermann ai minimi termini. Da contrappeso, la potenza visiva del film è avvolgente, e i bambini lasciano parlare i volti, gli occhi e i corpi, martorizzati dalla natura stessa da cui tentano di sopravvivere.

Ostermann decide volutamente di non fare un film storico, preferendo concentrarsi sulla narrazione di una vicenda considerata universale piuttosto che sulla sua contestualizzazione. Spesso si ha la sensazione che i fatti si svolgano in un non-luogo, e gli stessi confini tra la Germania e la Lituania appaiano difficilmente rintracciabili. L’inserimento di altri personaggi – tra tutti l’incontro con i partigiani indipendentisti lituani – finisce però per confondere uno spettatore non necessariamente informato sui fatti. La rappresentazione storicamente equilibrata di una vicenda poco nota, anche se parte integrante della storia dell’identità nazionale tedesca, fa comunque di Wolfskinder un film unico e prezioso, tra le poche opere cinematografiche a sfondo storico a interrogarsi sulla “coda lunga” della Seconda guerra mondiale. Che per tanti uomini, donne e bambini nel 1945 non è ancora finita.

Autore: Damiano Garofalo
Pubblicato il 06/12/2014

Articoli correlati