
C’è un film meraviglioso dentro Parkland, ma non è Parkland. E’ un film che non esiste, che si intravede in alcuni brevi momenti del’opera di Peter Landesman ma non viene mai alla luce, rimane così, ideale nell’iperuranio, immaginato da uno e magari più spettatori. Il film a cui ci riferiamo è quello su Abraham Zapruder, è la storia del sarto interpretato da Paul Giamatti – più qualunque di un vero uomo qualunque – che spinto dall’amore per Kennedy ne riprende per sbaglio la morte diventando per questo ricco e famoso; è la storia del brano multimediale più scansionato del Novecento, epitome di quello che è per eccellenza il medium del secolo, il cinema.
Peccato però che questa storia non esista, come non esiste neanche quella del fratello di Lee Oswald, o del medico che si trovò ad operare prima il Presidente e poi il suo assassino. Sono tante le storie che attraversano Parkland, ma nessuna di esse abita veramente il film, non si connettono tra loro su un terreno di riflessione comune. Tranne che per il bel finale con montaggio incrociato – unico momento davvero riuscito della pellicola – non comunicano mai tra di loro, non si incontrano per creare un qualcosa che sia più della somma dei suoi componenti, che sia più di una ricostruzione giornalistica. Anche il linguaggio registico adottato da Landesman del resto svela tale impostazione; girato con camera a mano e rapide zommate come fosse un reportage, Parkland non si relaziona con la Storia ma vi si sottomette, si presta alla pura ricostruzione cronachistica, oggettivizzata e privata di ogni traccia di ambiguità. Oswald è l’unico e sicuro colpevole, nient’altro è accaduto, nient’altro viene raccontato. Data quest’impostazione Parkland non può che sembrare un film fuori dal tempo tanto quanto arriva in ritardo sulla materia trattata, ma dato che di tale oggetto vuole dare una ricostruzione come se fosse accaduto ieri, il suo perché appare alquanto confuso. Se non si vuole creare senso ulteriore, che scopo ha raccontare oggi un rapporto giornalistico del genere?
Questo senso di limitatezza non fa comunque di Parkland un film sbagliato o mal fatto, anzi in esso è possibile ritrovare la scioltezza di ingranaggi che abita il buon cinema hollywoodiano, quello in cui non è concesso perdere ritmo e ogni attore sa sempre e comunque cosa deve fare. Il problema però è questa pletora di bravi e grandi attori appare alquanto sprecata su uno script che non si preoccupa di creare personaggi o riflettere sulle loro implicazioni, accumulando invece spunti e tratteggiature superficiali assai poco interessanti. Non sorprende a questo punto scoprire che il progetto in prima istanza era stato pensato come serie televisiva. Del resto è questo Parkland, un piatto pilot di una serie che rischia di chiudere fin dal primo episodio.