
Omaggio di Luca Guadagnino e Walter Fasano al Presidente di Giuria a Venezia 70, Bertolucci on Bertolucci ripercorre la carriera del regista emiliano attraverso il montaggio di svariate interviste rilasciate nel corso degli anni, dagli esordi fino a Io e te, dal bianco e nero dell’apprendistato pasoliniano all’apice della consacrazione a Hollywood con L’ultimo imperatore, passando per l’amicizia con Godard e lo scandalo di Ultimo Tango a Parigi, fino alla rinascita di uno sguardo capace di reinventarsi fino all’ultimo.
L’unico modo per parlare di tutto questo era instaurare un piccolo dialogo a due voci, appassionato e informale, nel tentativo di restituire la bellezza oracolare delle dichiarazioni e delle scelte di Bertolucci stesso.
Sa.S: C’è un momento in Bertolucci on Bertolucci, tra le immagini di repertorio, gli estratti dei film, le conversazioni televisive, in cui Bernardo dice: “Sai come chiamano i cinesi il cinema? The Electric Shadow. Il cinema è ombra, il cinema è aria,”. Mi pare un ottimo punto di partenza, soprattutto pensando alla direzione che il cinema di Bertolucci ha preso. Mi viene in mente quel film piccolo e meraviglioso, libero e leggero, che è Io e te.
Da.S.: Assolutamente. E nel definire Io e te, un film libero viene automaticamente da considerare anche l’altra faccia della medaglia, ovvero la reclusione, altro caposaldo indiscusso del cinema bertolucciano più intimo e poetico. L’appartamento di Ultimo tango a Parigi, e quello di The Dreamers,, oltre naturalmente allo scantinato di Io e te,, sono involucri uterini da squarciare, per segnare un passaggio, un unico grande salto verso un approdo che sappia di definitivo, sia esso la maturità, una presa di coscienza, o semplicemente una tragedia da cui è impossibile fuggire.
Sa.S: Che poi, d’altronde, è il cinema che ha bisogno di recludersi per poter scoprire il mondo in una cantina: è interessante il tema del limite, sia spaziale che fisico, che permette di riscoprire un nuovo sguardo, un altro, inaudito punto di vista. Basta vedere il cortometraggio di Bertolucci presente nel film collettivo Venezia 70: Future Reloaded, in cui c’è una sola protagonista: una sedia a rotelle che avanza tra sampietrini e strade impervie e riesce poi a riscoprire la sua fluidità. Bertolucci diventa così una sorta di carrello umano nel suo riscoprire un cinema che sprizza vitalità da ogni poro. D’altronde Bertolucci on Bertolucci, racconta proprio questo: la storia di un uomo, prima che regista, che non è si mai fermato ma ha sempre continuato a camminare, perfino quando il suo corpo non glielo permetteva. “La dolce vita è il film che mi ha detto alzati e cammina,”: quasi uno scherzo del destino.
Da.S.: Quella sedia che con grande autoironia è stata ribattezzata Sedia elettrica, (vedi documentario sulla lavorazione di Io e te,). Ancora una volta l’elettricità come motore e lampo vitale, il cinema come nella quotidianità ostinata di un regista appassionato e magniloquente che non ha mai smesso di parlare ai giovani e dei giovani. Oltrepassando muraglie gigantesche ed elevando il rito cinematografico a strumento di lettura della realtà, a terapia per non impazzire, a storia d’amore continua con gli attori. Un cinema che è madre, disposto ad accompagnare, consigliare, suggerire la via della verità dello sguardo. Perfino nel definire la fruizione della settima arte Bertolucci ricorre a una suggestione materna: “Quando entriamo al cinema ci troviamo in un luogo amniotico in cui sognamo tutti la stessa cosa,”. Un rapporto che però può avere anche dell’ossessivo, del perverso: si pensi all’incestuosa madre de La luna, un melodramma bertolucciano barocco al massimo grado e davvero troppo sottovalutato.
Sa.S: Infatti. E’ la visione stessa del cinema da parte di Bertolucci a interessare, visione che cambia pelle in continuazione, ma che crede fino alla fine che far un film significhi occuparsi della vita, e che occuparsi della vita significhi fare politica. Far cinema come gesto politico. “La macchina da presa è come una mitragliatrice” per l’appunto: dall’amicizia con Godard, le proteste contro la censura e il doppiaggio all’uso completamente terapeutico, quasi straziante, della macchina da presa. Nel documentario dice che filma per non impazzire, per riuscire a far ordine in quel caos primigenio che è nella sua testa, ricominciando ogni volta come se fosse la prima (godardianamente “Bisogna sempre partire da zero,”).
Da.S: E anche per interpretare ciò che gli sta attorno. Fare cinema vuol dire occuparsi della vita, e occuparsi della vita vuol dire fare politica,”. Una frase che dà alla militanza un significato nuovo, rinnovato, luminoso.
Sa.S: L’essenza politica del cinema a cui segue l’interesse, la fascinazione per la Storia. Quello che emerge da Bertolucci on Bertolucci, è la concezione di un passato, di un presente, di un destino che è possibile raccontare solo come antologia della luce. Come quando parla delle pellicole che ha amato e della sua personale storia della visione: dei film Bertolucci ricorda la luce, arrivando a pensare al cinema, a tutto il cinema come un unico grande film.
Un solo, lunghissimo bagliore.