
Pienamente in linea con i film di cui vi abbiamo parlato ieri, Thy Womb (concorso) del filippino Brillante Mendoza viaggia anche lui sospeso tra la vita e la morte, con il suo straordinario racconto “acquatico” su una levatrice che non può avere figli e che, per amore nei confronti del marito, cerca una seconda moglie che possa permettere al suo compagno di essere padre. Con uno sguardo leggermente più conciliato rispetto al passato il regista ci porta in una tribù che vive nel sud delle Filippine, documentandone usi e costumi con un approccio da antropologo più che da semplice documentarista. La macchina da presa è lasciata libera di vagare curiosa tra le palafitte e i vicoli: filma due matrimoni, una cerimonia religiosa, il sacrificio di una mucca, l’attività quotidiana dei pescatori, legando insieme documentario e finzione come se fossero inscindibili. Dentro questa stupefacente cornice Mendoza mette in scena una storia d’amore e di sacrificio che dialoga continuamente con la natura e che proprio dalla natura dei corpi sembra partire. Come nei due parti naturali che aprono e chiudono l’opera, e che raccontano il mistero dell’esistenza a partire dalla verità dei corpi filmati e dalla violenza e dal dolore che dà origine alla vita. Un dolore e una gioia che la protagonista non potrà mai vivere, “condannata” a far nascere i figli degli altri, ad essere solo testimone di un evento che non la potrà mai vedere coinvolta in prima persona. E’ questa mancanza, questo desiderio frustrato e più volte rinviato che spinge Shaleha a cercare una donna fertile per il marito, come se in qualche modo volesse rendersi protagonista del concepimento. Come una specie di regista cerca di accumulare i soldi necessari per la dote, sceglie il personaggio femminile attraverso diversi “provini” e infine trova anche la location per la “scena” del parto. Non senza dolore ovviamente: nella sequenza in cui fa l’amore con il marito vediamo il suo volto segnarsi per la sofferenza, con i suoi occhi lucidi rivolti verso il cielo come per cercare una risposta, una spiegazione. Alla fine sceglierà di mettere da parte invidie e gelosie per abbracciare la nascita di una nuova vita – nonostante questo evento comporti la rottura con il proprio uomo. Accanto a questo toccante racconto scorrono in parallelo tante altre piccole storie che il regista lascia interrotte, come per aprire il proprio film all’imprevisto favorendo l’ingresso del caso, come nella sequenza degli squali o del temporale. Attraverso questa struttura aperta Mendoza riesce a raccontare da una prospettiva decentrata il proprio paese ma senza certe forzature narrative – come era nel caso di Kinatay. La presenza dell’esercito è in questo caso più evocata che non davvero filmata. In tre diversi momenti percepiamo la presenza di militari, attraverso gli spari che si odono fuori campo durante il primo matrimonio oppure con la loro improvvisa comparsa sulla scena. Questa minaccia, che in passato veniva mostrata in tutta la sua forza distruttiva, appare ora sfocata, fuori dal margine eppure capace di esplodere da un momento all’altro.
Al cinema vitale e umanista di Mendoza si contrappone il cinema mortifero e ingabbiato del duo Peter Brosen e Jessica Woodworth, i quali con La cinquiéme saison (concorso) raccontano l’arrivo di una misteriosa calamità in un piccolo villaggio delle Ardenne. La coppia di registi (al terzo film di finzione insieme) chiude la loro trilogia sul rapporto tra uomo e natura mettendo in scena la scomparsa del secondo termine; una specie di apocalisse silenziosa dove animali e vegetazione non rispondono più al ciclo naturale dell’esistenza, diventando sterili (le mucche) o scomparendo del tutto (le api). A pagare le conseguenze peggiori sono (come sempre accade) i più deboli o i “diversi” (che nel caso del film sono un padre e il figlio in carrozzella), i quali sono oggetto della violenza degli abitanti del paese. Chiuso dentro inquadrature frontali e pittoriche che producono un considerevole distacco dalla narrazione, il film appare debole sia come opera apocalittica – per via del suo finale frettoloso e per l’assenza di autentico pathos – che come apologo morale sull’intolleranza – di cui non descrive né le dinamiche sociali che lo producono, né tanto meno le ragioni della comunità. Qualcuno potrebbe rispondere che non era intenzione dei registi fornire spiegazioni ma solo mettere in scena una storia esemplare, ma così è troppo facile. La sensazione è che i registi abbiano scelto – sbagliando – la via della semplificazione, per dedicarsi esclusivamente alla cura delle immagini. E’ in questo senso che può essere “giustificata” la scelta di utilizzare un bambino disabile, vero e proprio ricatto morale talmente evidente da non sembrare vero. Anche sul versante estetico le cose non vanno tanto meglio visto che le inquadrature geometriche di cui si compone il film tolgono respiro e vita ai soggetti ripresi, quasi imbalsamandoli. In questo modo il film risulta carente anche nella sua dimensione puramente superficiale. Dietro alle immagini non c’è niente. Che fosse questo il senso che i due autori volevano attribuire alla loro fatica? Per un cinema coinvolgente ed emozionante sull’apocalisse prego rivolgersi a Bela Tarr…
I personaggi principali di Me Too del russo Alexei Balabanov (Orizzonti) hanno problemi sicuramente più piccoli sebbene non di minore importanza: ognuno di essi infatti è alla ricerca della felicità. Per farlo decidono di dirigersi verso il campanile della felicità, situato tra San Pietroburgo e Uglic, in una zona colpita da un disastro nucleare. Con i ritmi della commedia stralunata a là Kaurismaki il film diverte nella prima parte, quando si concentra sul viaggio, per poi perdersi progressivamente lungo il percorso. Le ambizioni filosofiche si sgonfiano con il passare dei minuti, in corrispondenza dell’approssimarsi della meta. Quando finalmente i disperati personaggi raggiungono il tanto agognato campanile, al regista non resta che buttarla sul ridere, segno di come fin dall’inizio non avesse le idee molto chiare sul tono con il quale affrontare l’opera.