Un bacio romantico - My Blueberry Nights

La trasferta americana di Wong installa la sua poetica nel terreno di quel cinema: la forma è sempre melò, l'amore continua a sfuggire fino a un bacio finale.

Wong Kar-wai arriva in America. A tre anni da 2046 il cineasta di Shangai, dopo aver impresso in immagine il movimento (o l’immobilità) sentimentale, si muove anch’egli e sceglie di eseguire l’unico percorso verso l’esterno della sua filmografia: quello negli Stati Uniti. Non un gesto formale, ma un confronto sostanziale col cinema americano. In My Blueberry Nights (tralasciamo la traduzione italiana, Un bacio romantico) c’è New York e una donna, Elizabeth (la cantautrice Norah Jones), che è stata lasciata dal suo uomo e arriva nel caffè gestito da Jeremy (Jude Law), in cui entra perché il suo ex vive dall’altra parte della strada. I due passano delle notti insieme parlando, bevendo, mangiando la torta di mirtilli che resta sempre intatta a fine serata. Poi Liz parte, verso Memphis, verso altri luoghi e incontri, in particolare quello con Arnie (David Strathairn), poliziotto alcolista lasciato dalla moglie Sue (Rachel Weisz), e quello con Leslie (Natalie Portman), una donna che gioca d’azzardo. Deviazioni. E ritorno al punto di partenza.

«Non c’è una ragione da cercare per tutto» dice Jeremy a Liz, convertendo una spiegazione sulla torta dei mirtilli (perché nessuno la ordina) nella possibilità di accogliere l’irrazionale: le notti di mirtillo sono quelle non spiegabili, da prendere così come sono, in se stesse, rinunciando a farsi domande. Mentre loro lo dicono Wong li inquadra attraverso vetri, tra scritte frastagliate, dentro ralenti. Invita, come sempre, alla non linearità, ad accettare il frammento. Ma Liz non è pronta. Vuole una spiegazione, per ottenerla fa un viaggio, innesca un movimento: è così che la sua lontananza viene iscritta in didascalie, misurando i chilometri che la separano da New York e da questo bar. È proprio la lunghezza della distanza che ci porta a soppesare la fuga a elastico di Liz, un allontanamento che è necessario per tornare indietro. «Mi racconti le storie di tutte queste chiavi?» chiede la ragazza, sempre in apertura, guardando l’acquario delle chiavi dimenticate nel caffè, tra cui anche le loro: eccoci allora all’ennesimo racconto di coppie instabili, amori svaniti o in attesa (vana?) di ricominciare, a New York come a Hong Kong, con l’oggetto magico e fiabesco della chiave che suggerisce molti personaggi possibili di altri ipotetici film di Wong. Amanti finiti che lasciano chiavi.

Ne vediamo alcuni come Arnie, che non si rassegna alla separazione dalla moglie e di conseguenza ne muore, così che lo struggimento della donna possa arrivare solo dopo la sua scomparsa, di rimando davanti a una perdita: l’amore in Wong è sempre questione di spettri, luogo di attese e rimorsi, traccia dell’impossibilità di costituire un noi comune in quanto divisi da uno spazio o dalla morte. Allo stesso modo la giocatrice d’azzardo Leslie non crede alla fine del padre, ottiene una sostituzione affettiva, invia Liz all’ospedale al suo posto e perde la possibilità di un addio. Solo dopo realizza. E, noi con lei, realizziamo che il punto non è perdersi o lasciarsi, ma come sempre è nell’oscillazione. E nella memoria. Le figure in dissolvimento chiedono di non essere dimenticate, come esplicitato da Sue che porta i soldi dovuti dal marito morto: «Aspetta un po’ a pagare, così non lo dimentica presto». Anche Liz e Jeremy non si dimenticano: si scrivono o chiamano, e non importa se risponde un’altra persona, una voce diversa, l’essenziale si può dire lo stesso.

Liz per capire ha bisogno di dirazzare, cambiare strada, riflettersi in coloro che incontra («Alcune persone sono per noi come uno specchio»): e questo riflesso si tematizza, inscenandolo continuamente a livello visivo, esplicitando il rivedersi delle figure l’una nell’altra. È la storia di una donna che prende la strada più lunga per incontrare un uomo, ha detto Wong: solo allora, dopo essersi vista nell’altro, essa può indietreggiare fino all’origine, chiudere il cerchio, tornare nel bar di Jeremy per recitare una replica, con le stesse battute, la stessa torta ma un finale diverso. In fondo loro sono due spettatori: entrambi lavorano al bancone del bar, guardano gli altri, e insieme si specchiano tra loro risultando complementari, così escono dalla passività e fanno un gesto. Jeremy e Liz combaciano nel finale, nel loro bacio a incastro, unendosi platonicamente come le due metà di un amore.

Wong si reinstalla nel cinema americano, sul suo dettato (il cast illustre) e dentro la sua retorica: applica le forme e ribadisce la poetica, qui in trasferta, reiterando anche schegge di film passati proprio per restare se stesso. Ecco perché, solo per dirne una, nelle inquadrature di Rachel Weisz abita la Maggie Cheung di In the Mood for Love, ma ovviamente non rivive, perché è la sua immagine ripetuta e sformata su un altro terreno. Lo smontaggio e reinstallazione di sé, d’altronde, avviene anche nel successivo The Grandmaster: come qui si applica a un Paese lì si applica a un genere, il wuxia, e paradossalmente è proprio questo snaturarsi che conferma la sostanza del suo fare cinema. Anche negli Usa, anche nel cappa e spada la forma è sempre il melò, il sentimento si rimanda ancora, tra un’inquadratura e l’altra l’amore continua a sfuggire. Il racconto di Wong può cambiare forma, ma risponde all’unica regola conosciuta: quella del melodramma. Le modalità della storia sono dunque indifferenti: «The stories have all been told before» canta Norah Jones, sia all’inizio che alla fine. All’inizio c’è il dettaglio di una torta, alla fine l’incastro di un bacio. È così che My Blueberry Nights, nei suoi doppi e ritorni sfacciati, nelle figure "occidentali" strappate allo sguardo americano, diviene simbolo possibile di una poetica: a ben vedere il suo stesso cinema è una blueberry night, una notte mirtillo che aggira la ragione e respinge la spiegazione. Meglio inseguire l’amore e affidarsi al fotogramma.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 19/04/2018

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