True Detective 2x08 - Omega Station

Esaurita l'indagine e costretti alla fuga, i personaggi di Pizzolatto ci portano dove noir e melò si incontrano, nell'amara conclusione di una stagione bellissima

- “They see you. Running through the trees. You’re small. The trees are like - giants. Men are chasing you… You step out the trees. You ain’t that fast. Oh son. They kill you. They shoot you to pieces."

- "Where is this?"

- "I don’t know. You were here first."

Abbiamo sempre avuto le mani dei nostri padri, ed è con esse che finiremo all’inferno. Non serve fuggire, stordirsi, fottere e scopare il mondo per liberarsi di sé e dei propri fantasmi, quelle dannate mani restano sempre al loro posto, si flagellano, graffiano, rompono e nel tremito di dita incerte ci ricordano la crisi che abbiamo dentro, il momento dopo il quale la nostra vita ha cambiato percorso in modo ineluttabile e terribile.

Ani, Ray, Paul, Frank, i quattro true detectives di questa seconda stagione arrivano tutti da un trauma passato, uno strappo nella continuità che ne ha alterato equilibri e destini. Ma ogni alfa ha il suo omega, e così ciascuno di essi sembra poter trovare anche una via di fuga, occasione insperata per redimersi e salvarsi e finalmente ricreare la propria identità, oltre le cicatrici e i fantasmi del passato. Tuttavia l’Omega Station di quest’ultimo episodio non è l’assoluzione indiscriminata, non poteva esserlo, ma è anzi un figlio di puttana che concede quel poco per portarti via il resto.

Già Paul Woodrugh è caduto dopo esser stato ricattato dai compagni d’arme di un tempo, mercenari vendutisi ad un nuovo padrone più affamato e potente; dietro di sé lascia un bambino disgraziato nato dalla menzogna e della vergogna per sé stessi. Adesso tocca a Frank Semyon e Ray Velcoro pagare per i propri peccati, il primo abbandonato morente nel deserto e il secondo braccato nei boschi come un cane. A Frank spetta una carrellata di fantasmi e l’utopia di un traguardo che è sempre stato irraggiungibile, Ray invece può correre ma le frasi di morte del suo sogno incombono su di lui, le mani ormai troppo simili a quelle di suo padre per sperare di cavarsela. Chi si salva nell’Omega Station sono allora Jordan e Ani Bezzerides, l’unica dei quattro ad aver subìto dal mondo più di quanto ha inflitto. Assieme a loro il figlio che Ani ha avuto da Ray, nato quasi per miracolo in una notte fuggitiva. Solo a loro è concessa la possibilità di rinascere e raccontare quanto accaduto, tutti gli uomini invece restano a terra, schiacciati dai peccati dei padri che ebbero, che furono e che mai saranno.

Vinci, tossica giungla d’asfalto nel cuore della California, ha preso il posto della Louisiana più gotica e “Antica” della scorsa stagione, ma ancora una volta la penna di Nic Pizzolatto trasfigura la geografia, stavolta urbana, per evocare una nuova Carcosa, un regno di corruzione e male assoluto all’interno del quale tutto ha il suo prezzo, tutto è in vendita, tutto è fottere. Omega Station tuttavia conferma e rilancia quello che ormai sapevamo, l’omicidio di Ben Caspere era solo un paradossale e perverso MacGuffin che nulla aveva a che vedere con la truffa terriera imbastita da Frank assieme alla Catalast. Come in un romanzo di Ellroy (e prima ancora in quel “My daughter and my sister” di Towne e Polanski) pubblico e privato si intrecciano, la vicenda ha origini intime e quasi casuali sepolte nel passato, nel torbido di una relazione extra-coniugale finita in ricatto, rapina, morte.

Da qui nasce la violenza che come motore immobile anima un’infinita serie di ingranaggi, meccanismi gargantueschi disseminati da Pizzolatto un granello alla volta, in una dissoluzione studiata al millimetro che rende necessaria una visione d’insieme per cogliere tutti gli aspetti della faccenda. Tale è la portata del bluff che diversi legami restano fuori dal quadro, a partire dalle dinamiche che hanno animato la loggia dei Chessani e che hanno portato al suicidio la prima moglie del sindaco (ad esempio, chi è il quinto uomo ritratto nella fotografia della loggia che immortala assieme i due Chessani, il dottor Irving Pitlor e il padre di Ani?). Tuttavia poco conta quel che resta fuori fuoco, volutamente ai margini, come altrettanto ignorabili sono i passaggi più farraginosi di quest’ultimo episodio e della stagione in generale. Perché ancor di più rispetto alla precedente stagione questa nuova annata di True Detective ha dimostrato di essere anzitutto il racconto dei suoi personaggi, di volere sopra ogni cosa tratteggiare le parabole di vite corrotte e spezzate alle prese con gli scampoli della propria umanità.

Dopo due stagioni scritte praticamente in solitaria, il modus operandi di Pizzolatto si è fatto evidente: lavorare nel rispetto totale dei meccanismi del genere per rivitalizzarlo dall’interno. Nelle premesse di queste due tranche di episodi non c’era nulla di nuovo, né nella coppia di poliziotti alle prese con il serial killer né nell’umanità corrotta e malata di Vinci. E tuttavia con il procedere delle puntate entrambe le storie si sono popolate di personaggi sempre più sfaccettati e complessi, nati dal cliché e cresciuti nel solco della tradizione, ma pur sempre vivi, reali, mai bidimensionali. Il procedimento è stato ancor più evidente – e coraggioso – con questa stagione, nella quale Pizzolatto ha sostituito all’affabulazione incantatrice e calcolata di Rust Cohle una complessità narrativa apparentemente inestricabile, esplosa in più punti di vista divergenti. E tuttavia, man mano che i percorsi si andavano ad intrecciare sempre più, ogni personaggio acquisiva spessore e personalità all’interno di un amore per il genere che ha riportato il noir al centro dei discorsi narrativi come non capitava da anni. Nessuna decostruzione o ribaltamento, nessuna dimensione meta-narrativa o auto-riflessiva, solo narrazione forte e personaggi a tutto tondo, come se il postmoderno fosse stata una parentesi aperta e chiusa che nulla ha tolto al potere mitopoietico del genere.

In quest’ottica il noir per Pizzolatto è tornato ad essere vero e proprio hard-boiled, ma come nel cosmo ellroyano – da cui tanto dipende questa stagione – non ci sta più una figura integerrima da opporre al caos del mondo criminale. Philip Marlowe è un ricordo lontano, di quando ancora si poteva tracciare una linea che dividesse il bene dal male, per quanto quest’ultimo fosse inevitabilmente destinato a prevalere. Oggi invece nessuna dicotomia è possibile, dentro personaggi come Ray e Frank e Paul si mescolano corruzione e umanità senza soluzione di continuità, un amalgama che appare quasi contaminazione all’interno di un contesto nel quale ogni potere forte è di natura oscura. Del resto Vinci è Carcosa nella terra degli angeli, sede di un’intossicazione industriale che avvelena la terra e il cuore degli uomini. Dissolvenze incrociate tra volti e impianti industriali ci ricordano ossessivamente il legame tra i personaggi e la loro terra, una contaminazione che trova il suo correlativo oggettivo negli scarichi fognari a cielo aperto, nei fumi delle ciminiere, nei cantieri, nei crocevia autostradali che come pantagruelici fiori di cemento sorgono dal nulla del deserto. Come le paludi della Louisiana guardavano a Lovecraft e al male cosmico, qui la metastatica crescita industriale di Vinci si interseca alle angosce e ai peccati dei personaggi, figli di una terra malata e a loro volta padri falliti. Il sogno americano dell’est degenera nella crisi della paternità, vero tema portante di questa stagione e ossessione per tutti e quattro i protagonisti, figli divenuti troppo simili ai propri genitori e a loro volta padri assenti, mancati, o semplicemente impossibili.

E’ su questo fallimento che si chiude la seconda straordinaria stagione di True Detective, con un ultimo episodio che tira le fila del suo citazionismo per esplodere in un melò manniano di rara forza e commozione, tra sentimenti pronti a fuggire di bocca ma infine negati e fughe impossibili. Ray e Ani che diventano una coppia da spezzare il cuore. Ma oltre l’Omega Station e il dolore della perdita nasce una nuova vita e il seme di una confessione che possa un giorno generare un effetto domino dagli esiti distruttivi. Intanto però il meccanismo rimane al suo posto, i suoi attori ne raccolgono i successi, e lo stesso Re in Giallo di cui Marty e Rust erano giusto riusciti a tagliare un pezzo qui stringe nelle sue mani la città e il paese nel pieno delle sue forze.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 11/08/2015

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