Tre tocchi

Un guazzabuglio di personaggi per un'opera priva di struttura e in secondo luogo, anche fortemente misogina

Tre tocchi è puro caos: una confusione di personaggi e situazioni costretti a forza a condividere lo stesso spazio filmico, entro un rabberciato concentramento di voci. L’unico filo conduttore rintracciabile è un’audizione importante cui tentano di partecipano tutti i protagonisti, un gruppo di attori di varia età e fama che si incontra periodicamente nello spogliatoio del campo dove si allenano a calcio. Questo prezioso provino, potenziale trampolino di lancio per la terra dorata del successo, viene provato, ripetuto e interpretato continuamente per tutto il film, facendosi portavoce della comune angoscia di vivere che avvicina i personaggi invischiati in relazioni egoiste e morbose. La medesima pulsione sessuale si concretizza in fantasie omosessuali, o amplessi freddi e violenti, ed è in tale senso il film di Marco Risi si caratterizza come un’opera profondamente maschile, secondo il significato più scadente della parola. Le donne con cui si confrontano Max, Leandro, Emiliano, Vincenzo, Antonio e Gilles sono figure che non vengono mai comprese – nemmeno dal regista – esponendo un corpo considerato disponibile anche oltre ogni rifiuto; caratteristica peraltro questa che impedisce ogni possibile immedesimazione con i protagonisti, troppo egocentrici e presi dai propri impulsi per fare un passo verso l’Altro, o conquistare l’attenzione del pubblico.

Cosa resta di Tre Tocchi allora se non uno sfogo pulsionale tanto urgente quanto vomitato sullo schermo, fatto di sogni erotici e coiti gelidi giustificati da una nemmeno tanto latente disperazione – che guardacaso riguarda solo gli uomini e non le donne che li circondano? Nient’altro, dal momento che il contenuto emotivo poggia su una struttura narrativa davvero troppo esile. Così perfino il dato sociale suggerito dal film si trasforma in un lungo elenco di macchiette, che si discostano dalle figure che probabilmente Risi pensava di raccontare; l’esistenza mediamente frustrante dell’attore che si trovi a vivere e lavorare oggi in Italia, diviso fra lavori impegnati scarsamente considerati e, quando si è fortunati, esperienze televisive, perde, filtrata dall’occhio miope del regista, ogni spessore, per accontentarsi di bozzetti malamente disegnati.

Una serie di camei importanti - Luca Argentero, Claudio Santamaria, Valentina Ludovini e perfino un Paolo Sorrentino assunto a simbolo del regista di talento da conquistare – supporta ed enfatizza il lavoro degli interpreti, ma se l’intento di Risi era di descrivere un mondo che certamente per nascita e curriculum conosce bene, tale esperienza non è integrata da un racconto efficace, o che si possa definire almeno empatico. Il film soccombe sotto la pesantezza di un numero eccessivo di protagonisti, peraltro infelicemente resi, lasciando un gusto amaro in bocca, e un certo fastidio per alcune scene risolte rifugiandosi nella caricatura puerile o, al contrario, nell’esplosione emotiva, che non sorretta da un adeguato sentimento di comprensione per i personaggi risulta perlopiù prepotente, meschina e autoassolutoria. E così, vien persa ogni possibilità di penetrare questa latente depressione, questo continuo senso di colpa per cosa si è diventati, e la sotterranea speranza insensata di potercela ancora fare: lasciando solo noia e, unica emozione, una leggera irritazione.

Autore: Veronica Vituzzi
Pubblicato il 25/10/2014

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