Trash
La storia in chiave action di un terzetto di simpatici bambini-spazzatura nelle favelas brasiliane. Una vita sporca in un film che tiene bene il ritmo del racconto.

Trash non è un remake del film del 1970 di Morrissey, seconda parte della trilogia warholiana. Trash non è un’opera che si può definire autoriale nella sua accezione più elitaria. Trash non è un film uscito da una factory artistica. Trash non è neanche un film spazzatura. Ma, partendo da una frase del film sopracitato che recita: «Non vuol dire che una cosa è un rifiuto solo perché l’hanno buttata tra i rifiuti», arriveremo a definirne l’identità, lasciando a questa frase il compito di incipit per poter iniziare a raccontarvi la sinossi. Siamo nelle favelas, tre bambini poveri (Rafael, Gardo e Gabriel) vivono tra i rifiuti delle grandi città, sotto delle montagne di immondizia indifferenziata che quotidianamente vengono scaricate dalle alte pendici di sporcizia ammassata. Scalando queste montagne lavorano sottopagati alla ricerca di qualcosa di utile da poter salvare per vendere o barattare. Tra i rifiuti trovano un portafoglio che non è un rifiuto volontario, ma che è stato gettato per non essere intercettato in una fuga tra i palazzoni popolari dei bassifondi brasiliani, al suo interno troveranno dei soldi ed una chiave. Attraverso questo casuale ritrovamento i tre ragazzi affronteranno molti pericoli, fuggiranno da una polizia e da una politica collusa e corrotta, risolvendo un caso di importanza nazional-popolare. Dalla penna di Richard Curtis (I love Radio Rock, i due Bridget Jones, Love Actually, Quattro matrimoni ed un funerale) e dalla regia di Stephen Daldry (The Hours, Billy Elliot) ed attraverso un cast americano (Martin Sheen, Rooney Mara), nasce Trash, film multi-continentale che abbraccerà tre continenti (produzione americana, esecutivo e casting brasiliano, regia e scrittura britannica). Quello che ne deriva è un’opera che, sulla falsariga di The Millionaire, cerca (riuscendoci) di raccontare una storia attraverso un melting pot produttivo. Ma, a differenza di quest’ultimo, incentrerà la narrazione su un livello più action. Il film parte immediatamente veloce, i bambini riusciranno, attraverso una continuità di indizi, a sciogliere l’enigma cifrato contenuto nelle pagine di una bibbia che appartiene ad un ex attivista detenuto ingiustamente, attraverso la quale comunicava con l’esterno, con suo nipote, braccio destro del futuro sindaco, in cerca di vendetta. La continuità serrata del racconto sarà inframezzata da repentine corse e fughe, riuscendo, senza annoiare, a dare credibilità e ritmo al narrato mediante un montaggio incalzante e preciso. Daldry racconta attraverso l’uso di analessi e prolessi le varie peripezie del gruppo di bambini (il casting brasiliano è una delle forze del film) senza far perdere allo spettatore il filo del racconto, nonostante destrutturalizzi la linearità del narrato, tutti gli accadimenti verranno giustificati da una sceneggiatura molto ben calibrata e credibile. Anche l’utilizzo di diverse tecniche di ripresa (i bambini intervistati dalla handycam della volontaria americana) come l’inserimento di apparecchi tecnologici (internet, telefonini) verranno usati molto sapientemente, lontano dal vezzo formale e registico fine a se stesso, ma inserendoli nella sceneggiatura come quozienti di dinamismo attivo in grado di far evolvere o creare l’azione che sta alla base di tutto il film. Il Brasile delle favelas farà da cornice a questa storia ed il regista sposta la sua camera in maniera disinvolta all’interno di questo Paese povero e schiavo della corruzione dilagante, un Paese dove la povertà avrà nella ricchezza sfrontata delle grandi ville la sua controparte più sfacciatamente divaricante. I campi ravvicinati, insieme ai primi e primissimi piani, mostreranno il lato anatomicamente più povero di questi bambini spazzatura, abitanti delle numerose bidonville brasiliane, luoghi dove nessuno aiuta nessuno senza avere dei ricavi personali. Mani sporche, ginocchia sbucciate, eritemi sulla pelle, saranno i caratteri distintivi del realismo infine ottenuto. Una morale divina muoverà i fili del racconto, il volere di un dio buono aiuterà i tre ragazzi nella riuscita della loro missione. Espediente forse troppo ostentato e buonista ma che non sfocia mai nell’incredibilità o nella paternale cattolica. Daldry ci mostra una vera favelas facendocela percepire sia sulla pelle che nell’olfatto, dalle palafitte sull’acqua marrone gonfia di bottiglie di plastica fino alle fogne dove nessuno proverebbe ad avvicinarsi. I bambini correranno tra le intercapedini con l’agilità picaresca del circense, entreranno dai finestrini della metro in corsa con la stessa facilità con la quale salteranno da tetto a tetto, da intercapedine ad intercapedine, riuscendo sempre a fuggire e tenendo lo spettatore adulto sempre in ansia per la loro giovane sorte. Un film che diverte, ben conscio delle dinamiche action in esso utilizzate, un storia credibile raccontata in delle location dense di tragico verismo, molto affascinanti nella loro estrema fatiscenza. Nonostante la classica lungaggine finale di stampo americano, quei dieci minuti buoni che lasciano l’amaro in bocca per l’inutilità formale del riassuntino sulla felicità raggiunta, Trash è un film molto gradevole incentrato sull’intrattenimento puro, nudo e crudo. Un punto di vista riconoscibilmente british in un impianto action americano raccontato su un terreno terzomondista. Un prodotto simile per concezione produttiva (ma non solo) al film indiano di Boyle, una logica imperialista commerciale da poter facilmente biasimare se si vuole, operazione che non faremo in questo frangente soprattutto perché il film c’è e tiene, ma che potremo usare in futuri esempi di collaborazioni intercontinentali di opere mal riuscite. Il denaro, nel finale, perderà il suo significativo valore di scambio, lasciando che il suo potere d’acquisto si sfaldi nell’identificazione materiale del supporto, un foglio di carta stampato e colorato che, planando sul pattume, lo identificherà con lo stesso.