Torino 2013 / The Stone Roses: Made of Stone

La generazione di chi oggi viaggia sui 35/40 anni ricorda perfettamente chi erano gli Stone Roses, vero e proprio fenomeno di massa nel Regno Unito, mai realmente giunti alla notorietà definitiva sulle italiche sponde. La band faceva parte della scena di Manchester dei tardi anni ’80 e primi anni ’90, ribattezzata “Madchester”, un’onda rivoluzionaria che mescolava la psichedelia a sonorità elettroniche, dando corpo e forma a quel genere musicale ora universalmente conosciuto come indie rock, etichetta che, come spesso accade, fagocita tendenze anche diametralmente opposte. Dalla città britannica provengono non soltanto le bands facenti parte del movimento di cui gli Stone Roses erano i rappresentanti più celebri (e con tutta probabilità i più innovativi), ma i precedenti erano stati illustri: partendo dai Joy Division (originari di Salford, nella contea di Greater Manchester), e dalla loro costola, i New Order, passando per gli Smiths fino ad arrivare agli Oasis, alfieri del brit pop, la tradizione musicale di questo borgo metropolitano, fondato dagli antichi romani come magnum castrum, è stata determinante e pioneristica. Gli Stone Roses, insieme a bands come Inspiral Carpets, Charlatans e soprattutto Happy Mondays (magnifici e da riscoprire) era parte integrante di quella Madchester efficamente ritratta nell’ottimo 24 Hour party people (2002), di Michael Winterbottom, il quale ripercorre quella storia attraverso il personaggio (reale) di Tony Wilson, interpretato da Steve Coogan, mancunian fondamentale in quanto fondatore della Factory Records, la label portante di quelle sonorità psychedelic-dance che scossero il panorama Uk.

Il regista Shane Meadows, nato nel 1972 quindi diciassettenne nel 1989, anno in cui uscì l’album di debutto del quartetto capitanato da Ian Brown, quel disco intitolato semplicemente “The Stone Roses” che esplose come una bomba molotov in un’Inghilterra post new wave, conquistando stuoli di fans tra cui lo stesso Meadows: questo The Stone Roses: Made of Stone è quindi un film/documentario che nasce da una passione mai dimenticata e risvegliata dalla reunion della band in occasione di un nuovo tour, vero e proprio punto di partenza per un’opera che si rivela trascinante, tributo sincero e mai didascalico, energica e realistica come tutti i lavori di uno dei cineasti più talentuosi e rappresentativi della nuova scena made in Britan. Il cinema di Meadows è crudo, realistico, talvolta spietato come nello splendido Dead man’s shoes – Cinque giorni di vendetta (2004), ma soprattutto profondamente umano nella caratterizzazione di personaggi verso cui non si può provare che empatia. E’ proprio nel delineare ritratti che Made of Stone trova il suo punto di forza, collocandolo al di sopra dei semplici rockumentaries; si comincia proprio da Meadows, che è al tempo stesso osservatore attento e fan entusiasta, chiamato a girare il documentario sulla sua band più amata, in occasione di quella che si rivelerà essere una reunion soltanto temporanea.

Nell’Ottobre del 2011, gli Stone Roses tennero una conferenza stampa annunciando, ufficalmente, il proprio ritorno sulle scene, dopo ben 15 anni di assenza. Un tour mondiale, preceduto da tre show giocati in casa a Heaton Park, Manchester e da un surprise gig presso la Parr Hall di Warrington, nel Maggio 2012, evento che nel film diventa cardine portante, in quanto occasione per una galleria di personaggi filmati con affetto: i fans. Lo show, infatti, era riservato soltanto al primo migliaio di appassionati, che dovevano portare con loro memorabilia dell’epoca al fine di guadagnare l’accesso: ecco dunque che l’occhio di Meadows si focalizza sull’entusiasmo di chi entra e la delusione di chi resta fuori, dal padre di famiglia che torna a vedere la band con i figli piccoli fino al preside scolastico che tenta, invano, di barattare un agognato biglietto in cambio di un contratto di lavoro a tempo indeterminato.

Questa carrellata, pregna dell’umanità tipica del cineasta britannico e filmata con partecipazione ed empatia, risulta coinvolgente per chi guarda, mettendo in risalto quell’amore per la musica che nel Regno Unito si manifesta in modo assai più evidente rispetto ad altri Paesi: chi segue una band non se ne dimentica, anche dopo anni, in una sorta di devozione che di rado si ritrova altrove, in un mercato europeo e mondiale che tende a rimuovere nomi e canzoni troppo in fretta, subito dopo l’uso. Si narrano le origini del gruppo, sfiorando solo di striscio il biopic nell’illustrare le personalità del quartetto: il loro atteggiamento indifferente verso la stampa, in netto contrasto con la dichiarazione sbruffona del voler diventare “la band più famosa al mondo”, le risposte monosillabiche fornite ai giornalisti, e gli inevitabili litigi, in primis tra il leader Ian Brown, personalità tanto carismatica quanto spigolosa, e il batterista Alan “Reni” Wren. Dissidi che torneranno a galla dopo il tour, culminato nelle tre date a Heaton Park, che andarono sold out così velocemente (la prima in soli 14 minuti) da stabilire un record nella storia della musica inglese. Si giunge così a un nuovo scioglimento, e all’incertezza riguardo un ritorno che sembra sempre meno probabile. La manifestazione appassionata di un fan che ora prende il timone dietro la macchina da presa, in una pellicola che porta indietro nel tempo chi amava gli Stone Roses vent’anni orsono, è ottima occasione per far scoprire una band fondamentale, e preziosissima, alle nuove generazioni.

Autore: Chiara Pani
Pubblicato il 14/10/2014

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