
Sauro Ravaglia, barbiere della rossa Romagna, fu scelto nel 1957 come uno dei delegati italiani che avrebbero partecipato al Festival mondiale della gioventù socialista. Il viaggio sarebbe stata l’occasione per recarsi finalmente a Mosca, terra promessa sede di un comunismo in cui domina l’uguaglianza e non esistono disparità economiche. Mosca come concretizzazione dell’utopia, meta ideale di una generazione sognante che ad essa guardava mentre combatteva in Italia contro il nazi-fascismo. Assieme ad un gruppo di amici e compagni di partito, Ravaglia parte infine in treno diretto in Russia, ma la realtà che si troverà di fronte sarà ben diversa da quella immaginata, accentuata dalle esibizioni di sfarzo e benessere messe in campo dal Festival. Al ritorno però nessuno vorrà sentire come stanno veramente le cose, Mosca deve restare la sede dell’utopia ideale.
Il treno va a Mosca di Federico Ferrone e Michele Manzolini nasce dal grande materiale video che Sauro e i suoi compagni hanno girato nel loro viaggio, una testimonianza impressa in 8 mm che oggi permette di ripercorrere quell’esperienza e di rivedere in essa il più generale impatto che il comunismo italiano avrà con lo svelarsi della realtà dietro l’utopia. L’idea è così quella di affidarsi al racconto di Sauro, che fuori campo commenta e ricostruisce gli eventi mostrati, per recuperare quel senso di smarrimento generale, ma l’operazione non riesce, il film appare fortemente decentrato. Nonostante la bellezza e l’interesse storico degli splendidi filmati d’epoca (recuperati dall’Archivio nazionale del Film di famiglia), la loro rielaborazione ad opera di Ferrone e Manzolini non riesce mai a divenire cinema, a farsi narrazione compiuta di un percorso o di una suggestione. L’intento è chiaro ed evidente fin dall’inizio, ma allo spettatore arriva poco o nulla che non sappia già da solo o non possa immaginare. Sauro e i suoi compagni rimangono presenze invisibili e sconosciute, e da quest’assunto difficilmente possono farsi veicolo di una significazione collettiva. L’unico tentativo di intraprendere la strada di un’esplorazione personale (l’accenno di Sauro ai suoi viaggi successivi) arriva tardivo e posticcio, sembrando più che altro un modo come un altro per portare il film alla morte di Togliatti, punto di arrivo programmaticamente deciso dai due autori.
Il treno va a Mosca, in concorso al Torino Film Festival, è in definitiva un fiacco e poco riuscito esempio di documentario italiano, inoltre capace di far pesare i suoi soli 70 minuti con la decisione di accompagnare tutta la visione con una musica inutilmente enfatica e ridondante.