Tabu

Capace di incantare quella 63esima edizione del Festival di Berlino (vinta, tanto per la cronaca, dai fratelli Taviani e dal loro magnifico Cesare deve morire) dove conquistò il FIPRESCI e il Premio Alfred Bauer, ovvero i due riconoscimenti generalmente destinati a consacrare l’originalità e la coraggiosa tensione verso prospettive cinematografiche insolite e innovative, Tabu si dà, nel contesto della storia del cinema più recente, come un unicum eccentrico e non categorizzabile, un piccolo, grande, magnifico film non riassumibile all’interno di nessuna etichetta né tanto meno tra le rigide griglie di un genere, un prodotto ibrido, poliedrico e multiforme tanto nelle configurazioni stilistiche che lo compongono, quanto nelle suggestioni tematiche che lo animano.

La storia (per quanto sarebbe più opportuno parlare di “storie”, al plurale) è quella di Aurora, un’ottuagenaria che ha perso da tempo il contatto con la realtà (o citando una battuta di dialogo “che ha la tendenza di esagerare un po’ con l’immaginazione”), prestata alle cure di una governante nera che lei crede una fattucchiera capace di strani riti vudù e assistita da Pilar, vicina di casa sola che le è particolarmente affezionata. Sul letto di morte Aurora rivela proprio alle due donne l’ardente e recondito desiderio di vedere per l’ultima volta un certo Gianluca Ventura, scovato con sorpresa da Pilar in una casa di cura e pronto a raccontare dell’ardente storia d’amore consumata proprio con Aurora nel Mozambico degli anni ’60. Dunque un’opera in due atti, preceduti da un breve prologo narrativamente svincolato da entrambi i blocchi diegetici eppure simbolicamente connesso ad entrambi. Un film sospeso tra gli interni claustrofobici della Lisbona contemporanea e le vaste e assolate praterie dell’Africa coloniale, tra il piccolo universo artificiale di tre donne sole orientate alla follia e alla vecchiaia e un mondo rigoglioso e ancestrale, fatto di corpi giovani e magmatici, scalpitanti e tesi al desiderio. Due termini dicotomici in perfetta opposizione impiantati su una struttura di base che mutua e capovolge quella del capolavoro omonimo di Murnau e Flaherty, a sua volta desunta dal celeberrimo Paradiso perduto di Milton. Se nel film del 1931, infatti, a una prima parte idilliaca, in cui la fuga di due giovani amanti permette il coronamento del loro amore, seguiva una distruzione di quel sogno di perfezione e purezza, nel Tabu di Gomes è il “Paradiso Perduto” della Lisbona neocapitalista, imperversata dalla follia e dalla morte, a precedere il “Paradiso” di un amore proibito e frastagliato ma anche totalizzante e privo di limiti, risolto -come nell’omonimo film del ’31- in una fuga dalle asfissianti costrizioni della civiltà dominante.

Al di là dei riferimenti intertestuali, comunque, una delle operazioni più interessanti messe in atto dal film di Gomes sta nel far coincidere la brusca eterogeneità che informa lo sviluppo narrativo con una studiata poliedricità stilistica; nel tentativo, cioè, di enfatizzare le suggestioni di cui i frammenti dislocati della trama si fanno portatori attraverso un’alternanza quanto mai varia e affascinante di sistemi linguistici. Ne deriva un’esplosione dei “modi del dire” che ricalca in modo rigorosa quella delle storie raccontate. Il piccolo incipit con cui l’opera si apre assume, ad esempio, il valore autoriflessivo di “film nel film”, caratterizzandosi diegeticamente come il finale di una pellicola che Pilar sta guardando in una sala vuota, raccontata dalla voce over di un narratore (Gomes stesso) che non avremo più occasione di sentire. La tragica storia dell’esploratore che incapace di sopportare il dolore della perdita di una donna si toglie la vita (gettandosi nelle fauci di un coccodrillo affamato) dopo che questa gli è apparsa sotto forma di fantasma, inoltre, fa di questo frammento apparentemente slegato dall’economia del racconto, un metafisico e simbolico raccourci microscopique dell’intero film, leggibile nel complesso come una riflessione potente sul valore esercitato dal passato sulle esistenze individuali, sull’ossessione spesso inconscia, rimossa o celata dei fantasmi di un tempo lontano.

La prima parte, al contrario, si sviluppa in uno stile più classico e raffreddato. Gli scorci di vita delle tre protagoniste vengono rese attraverso un sapiente uso del montaggio alternato, la voce over lascia spazio ai dialoghi -forza motrice del racconto- che a poco a poco svelano i rapporti di forza fra le tre e lo stato mentale “peculiare” in cui riversa Aurora. Il tono simbolico, sacrale, metafisico del prologo lascia spazio a una descrizione decisamente più concreta che ci getta a capofitto in quello che si presenta come un dramma sulla vecchiaia, il lento e ripetitivo incedere del quotidiano. La seconda sezione del film, che torna indietro di un cinquantennio e dal Portogallo sposta l’azione ai piedi del Monte Tabu in un idillio come svincolato dal tempo che segna anche il passaggio ai toni fiammeggianti del melò, è quella che presenta la massima contaminazione tra componenti stilistiche. L’impianto di base è di sicuro permeato dal film muto, da cui deriva la scelta programmatica di sopprimere le voci dirette dei protagonisti in scena per lasciar spazio alla voce over del vecchio Gianluca che racconta il suo passato, ai suoni ambientali, alle note che si spandono dall’etere o a quelle suonate dal gruppo musicale di Gianluca e dei suoi amici, al carteggio dei due amanti, le cui parole paiono prendere vita come magicamente. L’annullamento della parola diegetica lascia così spazio a una proliferazione di stili e tecniche narrative desunte non solo dalla tradizione cinematografica del muto ma anche mutuate indirettamente dal romanzo epistolare, dalla canzone, dalla ripresa amatoriale o addirittura dall’arte visiva e pittorica (in una sequenza i due amanti giocano allegramente a ricondurre a forma animali la sagoma incerta delle nuvole e un tratto bianco, che richiama quello del gesso, satura le lacune imposte dall’assenza di suono).

Oltre che un arricchimento della poliedrica complessità che struttura il tutto, la soppressione della parola attivata nella seconda parte del film ben si adatta alla natura peculiare di tale segmento, identificabile secondo le classiche categorie narratologiche come “racconto nel racconto”, ricordo mediato, flashback soggettivo. E proprio per questo impregnato di tutta la potenza di una rievocazione multisensoriale. In tal senso, gli ultimi sessanta minuti di Tabu si danno come una sorta di tragica irruzione della memoria nel flusso del vissuto quotidiano, un ritorno del rimosso, una vera e proprio ricomposizione cinematica -nell’accezione più concreta e visiva del termine- del passato davanti agli occhi di chi parla. Una ricatalogazione esistenziale fondata sulla fisicità barbarica dei corpi, sugli odori, i sapori, gli umori e poco attenta invece alle componenti verbali. E d’altro canto, il passaggio a uno stile da cinema muto, totalmente altro rispetto a quello precedentemente utilizzato serve a suggerire l’idea di un approdo a una dimensione totalmente diversa dell’esistere. Non è un caso che la prima espressione utilizzata per descrivere l’Africa sia “novo mundo”, universo alieno rispetto al caos mercificante del mondo neocapitalista, legato a modi di vita ancestrali, arcaici, terranei, così energicamente legato a quella “sfiducia nel Logos” propriamente pasoliniana e dunque rappresentabile solo attraverso un cinema non verbale basato su fisicità, onirismo, forza barbarica capace di esprimersi attraverso l’attrito ruvido dei corpi più che per mezzo del dialogo.

Dunque un ritorno agli stilemi del muto nell’era della digitalizzazione e del 3D. Un ritorno alle origini del cinema un anno dopo, o forse meno, il tanto decantato caso The Artist, al quale è impossibile non tornare con la mente, quanto meno per sottolineare i diversi intenti che hanno animato in Hazanavicius come in Gomes una scelta stilistica così radicale. Se lo strapremiato film con Jean Dujardin denunciava, al di sotto di un’ammicante superficie scintillante, un vuoto incolmabile, il capolavoro del cineasta portoghese riesce a collocarsi pienamente nell’orizzonte teorico della postmodernità. Laddove The Artist nascondeva sotto la novità formale, un conformismo raggelante incapace di approcciarsi con una visione realmente problematizzata del mondo, Tabu utilizza il “muto” come risorsa tra le risorse, linguaggio tra i linguaggi, in una struttura formale improntata su una logica della mescolanza, della moltiplicazione infinita delle suggestioni, della convivenza degli estremi. Un contenitore ribollente capace di mescidare senza scorie kitsch e sublime, cultura alta e avanzi pop, reale e simbolico, muto e sonoro. Facendosi, in fondo, specchio di quel caos informe in cui tutti noi viviamo.

Autore: Stefano Oddi
Pubblicato il 10/02/2015

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