A Venezia 67, la fin troppo civettata edizione in cui Quentin Tarantino – presidente di giuria – assegnò un contestatissimo Leone d’oro a Sofia Coppola e al suo Somewhere, in pochi offrirono la dovuta attenzione al russo Silent Souls, inclassificabile animale filmico imperniato sul viaggio di due uomini i quali, seguendo i rituali dell’antica cultura merya di cui fanno parte e che strenuamente tentano di conservare dall’azione distruttrice del tempo e della modernità, preparano la sepoltura della donna da entrambi amata; in bilico tra un incedere lirico, magico, sognante e le rudi fattezze di un saggio antropologico, tra il debito della lezione letteraria di Bulgakov e l’eredità di Andrej Tarkovskij, insuperato cantore delle più profonde e intense analisi di una certa spiritualità russa rurale, visceralmente ancorata alle proprie radici.
Il film di Aleksej Fedorchenko (già a Venezia nel 2005 con un mockumentary su un prebellico e impossibile sbarco sovietico sulla Luna) guadagnò un -più che meritato- Osella per la gelida fotografia di Mikhail Krichman e sbancò la sezione dei premi collaterali, conquistando – tra gli altri – il FIPRESCI e il Mouse d’oro, riconoscimenti da sempre destinati al cinema più originale, personale e rischioso. E per gli stessi motivi passibile di scomparire (non è un caso che il film sia uscito in Italia solo lo scorso anno, peraltro fuori stagione e con una distribuzione assai limitata) nella spirale del dimenticatoio. Una triste contraddizione in termini per un’opera che si pone prima di tutto come un poema intenso e soffuso sulla necessità della memoria e del ricordo, sull’obbligo morale di conservare e conservarsi, sull’imperativo etico che vuole il presente indistricabilmente legato al passato, alla tradizione, magari al mito. Quest’attenzione rigorosa nei confronti delle radici -individuali e sociali- è mirabilmente espressa nella struttura stessa del film che si muove lungo una linea temporale che contamina vita e memoria, oggi e ieri, come nei modi e nei simboli di una scrittura filmica ieratica e riflessiva, che indugia e dà il tempo di riflettere.
Il film si apre in modo paradigmatico tra gli alti tronchi di una foresta, inquadrando il retro di una bicicletta che trasporta due zigoli (definiti semplicemente “degli strani uccelli, niente di che”) su una stradina asfaltata: immediatamente la macchina da presa cambia prospettiva e indirizza il suo occhio all’indietro, verso la strada percorsa, disinteressandosi di quella che verrà. E subito, anche la narrazione cambia il senso di marcia: una voce over, quella del protagonista, racconta di come e perché ha comprato quegli zigoli e parla di “qualcosa dal passato, dall’infanzia o dai sogni” che l’ha indotto a prenderli con sé. Successivamente, quella stessa voce distante che narra quello che guardiamo alla stregua di un passato siderale, passa in rassegna i fondamenti della propria vita, di un’infanzia perduta, di un padre scrittore, della cultura merya , tutti intesi come i resti preziosi di un passato imprescindibile, da conservare a costo della propria vita. E’ però a un quarto d’ora dall’inizio che la narrazione slitta nel suo cuore più caldo. Il capo del protagonista gli confida la notizia della morte della propria moglie e chiede a lui di accompagnarlo nel viaggio che i merya compiono con il cadavere prima di bruciarlo, durante il quale l’uomo dovrà confidargli -come tradizione richiede- i più intimi segreti del suo legame con la defunta. Alle sequenze “on the road” Fedorchenko accosta allora momenti lirici e sospesi, squarci del passato dell’uno o dell’altro personaggio, combinando aneddoti realistici e segmenti onirici, carichi di una valenza simbolica che rinvia al cinema di Malick o a quello del già citato Tarkovskij. Così la reiterazione di elementi come le fotografie, le passeggiate sulle distese di ghiaccio o i ben più suggestivi dettagli delle orme sulla neve vanno ricondotti a uno schema allegorico sempre teso a evidenziare la difficoltà umana di lasciar tracce e, per converso, la necessità assoluta di conservarle, per garantire la sopravvivenza di una memoria storica sempre più compromessa dalle livellanti istituzioni di una società globalizzata.
In questo senso, Silent Souls è anche -forse soprattutto- un’invocazione carica di dolore che rivendica l’importanza della spiritualità nell’era del tangibile e del materiale, un elogio al silenzio, allo sguardo depurato di intellettualismi, venato invece di innocente speranza, un film panteista capace di opporre un mondo dominato dalla forza barbarica e sacrale dei quattro elementi all’abominio mercificante e indifferenziato della nuova società dei centri commerciali (“Sarebbe terribile se dovesse smettere di esistere, se dovesse finire dissolta tra le periferie di un’altra grande, moderna città piena di vita…”), un flusso di coscienza narrato dalla voce di un morto -come già si dichiara il protagonista a metà pellicola- che si fa documento antropologico della necessità di credere in modo ingenuo, di accettare il mistero e il suo fascino, stigmatizzando la rigidità di un universo aritmeticamente predeterminato. E in fin dei conti, alla base di questa riflessione sul ricordo e la necessità di aprirsi all’insondabile, c’è il cinema stesso. C’è la cognizione del suo potere, della sua capacità di archiviare, fissare e dar memoria. A ben guardare, la voce over senza corpo che accompagna il viaggio dei due protagonisti attraverso la vita e la morte coincide metacinematograficamente con quella stessa rivoluzionaria invenzione che nel 1895 cambiò il mondo, quell’occhio (del Novecento, scrisse Casetti) capace di congelare la storia di uomini, popoli e nazioni e di fissarne la memoria. Attraverso immagini presentificanti ma impalpabili e aleatorie. E in assenza (corporea) dei soggetti.