Sennentuntschi

Sennentuntschi è il racconto di un racconto, di un mito, di una fiaba popolare e gotica che affonda le sue radici nella tradizione e nel folklore.

Non capita molto spesso di avere a che fare con la cinematografia svizzera, soprattutto se si tratta di horror. Ecco perché la comparsa di un film come Sennentuntschi, nel 2010, venne accolta con una certa dose di curiosità, in un periodo in cui l’Europa tutta si stava dimostrando fucina di talenti nuovi per il genere. Il film di Michael Steiner si propone come il tentativo di esulare dai percorsi narrativi già consolidati, facendo a meno di qualsiasi appeal commerciale per raccontare una storia in grado di prendersi il proprio tempo. Ecco: raccontare una storia. Una forma di comunicazione che sembra antiquata e fuori moda, capace di far storcere il naso a chiunque oggi ragioni di cinema in termini di linguaggio. Sennentuntschi non è certamente un film innovativo da un punto di vista stilistico; di più: oseremmo dire che Michael Steiner non è certamente un regista in grado di fare la differenza, dal momento che la sua messa in scena appare scolastica, piatta, priva di brio e di intuizioni personali. Ma allora perché spendere tempo e parole sul suo film? Perché arrivare addirittura a consigliarne la riscoperta (che è lo scopo principale di questa rubrica: Cose preziose, appunto, spesso nascoste e dimenticate dalla distribuzione italiana), se si comincia evidenziandone subito i limiti? Perché, tutto sommato, Sennentuntschi è in grado di emanare un fascino ancestrale e polveroso, quello stesso esercitato dai vecchi volumi delle biblioteche, riposti sugli scaffali più alti e irraggiungibili per le moli di lettori in erba desiderosi di avventurarsi in mondi fantastici altrimenti impenetrabili. Il film di Steiner è infatti il racconto di un racconto, di un mito, di una fiaba popolare e gotica che affonda le sue radici nella tradizione e nel folklore. Basterebbe l’originale ambientazione per rendersi conto di trovarsi dinanzi a un mondo antico e oggi poco frequentato: quella di un villaggio isolato ai piedi delle Alpi svizzere, dove la tradizione è dogma e i segreti vengono nascosti dietro le insegne di istituzioni vecchie di secoli.

Il ritrovamento di uno scheletro nel bosco è il pretesto per raccontare le vicende avvenute in quei luoghi più di trenta anni prima: dopo il suicidio (?) di un giovane parroco per impiccagione (incipit quasi Fulciano, perché no?), in paese arriva una giovane ragazza senza passato. Nessuno sa chi sia, non è in grado neppure di parlare, e mentre tutti la additano come un emissario del demonio arrivato a portare morte e disgrazie, solamente un poliziotto si prende cura di lei, convinto della sua innocenza. Mentre la ragazza si rifugia in un capanno alle pendici della montagna, abitato da tre uomini poco raccomandabili, il poliziotto giù a valle continua le sue indagini per portare alla luce una verità scomoda che risale a sua volta a molti anni prima. Ma le cose non sono come sembrano, a partire dalla linearità del racconto: il twist finale infatti rimette in discussione l’ordine temporale degli avvenimenti, trasformandosi in vero e proprio punto di forza che – per una volta – non appare forzato o scorretto nei confronti dello spettatore. Il colpo di scena si trasforma quindi in strumento per sottolineare la ciclicità della Storia intesa come una ruota di sangue e violenza dinanzi al quale l’Uomo è vittima inerme, una pedina soggiogata alle volontà di un Male eterno. In un film che si prende i suoi tempi in maniera incredibilmente dilatata (al punto che la componente horror è circoscritta agli ultimi dieci minuti), ci si ritrova avvolti in un clima di sospensione e mistero nel quale l’unica certezza è la presenza del Male, indipendentemente che sia incarnato nella figura di una leggenda popolare (la Sennentuntschi, appunto, una strega nata dal desiderio di sopraffazione sessuale degli uomini) o in qualcosa di molto più terreno e materiale. Il racconto si fa quindi man mano più denso e stratificato, riuscendo nell’impresa di mettere in secondo piano tutti i limiti stilistici di un regista altrimenti anonimo come Steiner. Altro punto di forza della pellicola è poi la bellissima b>Roxane Mesquida, attrice e modella famosa soprattutto per le sue collaborazioni con Catherine Breillat, qui in grado di impersonare al meglio un personaggio difficile che richiama alla mente alcuni delle meravigliose interpretazioni dell’icona gotica per eccellenza, Barbara Steele.

Autore: Giacomo Calzoni
Pubblicato il 08/08/2015

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