Roma 2012 / Suspension of Disbelief

E’un ossimoro su celluloide il nuovo film di Mike Figgis, una contraddizione in termini fattasi immagine per essere identificata in quanto tale. Suspension of Disbelief, ovvero “sospensione dell’incredulità”, è infatti un’opera che fin dalle sue prime immagini cerca di distaccare lo spettatore, di mantenerne viva la consapevolezza di assistere ad una realtà finzionale, di uccidere quella citata sospensione dell’incredulità che è una delle condicio sine qua non dell’immedesimazione spettatoriale; allo stesso tempo però imposta una torbida storia noir che di tale immedesimazione va proprio in cerca. E l’aspetto più spiazzante – e soddisfacente – del lavoro di Figgis è che in parte ci riesce; maneggiando con estrema dimestichezza i postulati del genere e fondendo tra loro suggestioni e citazionismi cinefili, Figgis ci pone di fronte alla divertita autopsia della sistema narrazione facendoci al contempo credere ed emozionare per il suo influsso. Ci mostra il trucco ma ci inganna lo stesso.

Presentato in concorso all’interno di CineMAXXI, Suspension of Disbelief si apre su di una citazione junghiana che anticipa l’ottica in cui l’opera è stata pensata e realizzata; il brano infatti parla di come nel corso di una narrazione uno scrittore proietti il proprio inconscio nelle parole su carta; tale trasfusione permette a sua volta all’opera di acquisire un forte carattere di indipendenza. Ogni lettore quindi, leggendo tali righe, potrà interagire con quanto vi è stato sepolto sotto e farne, almeno in parte, propria la lettura. E’ in quest’acquisizione che si cela il meccanismo della sospensione dell’incredulità, e dall’esplosione di letture possibili discende il tema centrale del film, ovvero il rapporto tra narrazione e inganno, la definizione di cinema in quanto illusione e la dissoluzione dell’oggettività finita di una storia. Per Figgis quindi il racconto deve essere infinito, il cinema deve accettare il proprio carattere ingannatore; per portare avanti quest’impostazione teorica Suspension of Disbelief abbraccia due strade, la costruzione di un classico racconto noir e la sua parallela decostruzione con gli strumenti della meta-rappresentazione e della citazione.

Guardando principalmente agli sperimentalismi di Godard e alle tinte oniriche e sospese del Lynch più noir (Strade perdute e Mulholland Drive su tutti) Figgis mette in scena una vicenda di seduzione e omicidi dallo stampo fortemente classico, calandola però in una mise en abyme da “film nel film nel film” incorniciata da interventi fortemente extra-diegetici. Così, mentre uno split screen gioca sul rapporto tra set interno ed esterno nei diversi livelli di finzione, scritte in sovrappressione ricoprono spesso le immagini, evidenziando le parole chiave all’interno dello sviluppo narrativo o i concetti che il protagonista scrittore illustra agli allievi del suo corso di sceneggiatura. Allo stesso modo capita che la femme fatale dell’intreccio noir legga la propria sceneggiatura e la stessa scena vissuta in quel momento, mentre qualcun altro esplicita la fine di un atto scrivendolo su di un taccuino. Sono i tessuti e vasi sanguigni soggiacenti alla narrazione ad essere portati alla luce, in quello che rischiava di essere un pretenzioso e sterile sperimentalismo se non fosse stato per l’approccio adottato da Figgis.

Il regista di Via da Las Vegas infatti, pur prendendo di petto temi importanti, si approccia alla materia con un tono leggero, divertente e divertito, che non si prende sul serio pur ribadendo con chiarezza il proprio carattere teorico. Si tratta di fatto di mostrare e svelare il potere della narrazione, la sua capacità ingannatrice e al contempo moltiplicatrice di senso, in un abbandono dell’oggettività assoluta condotto come una sfrenata improvvisazione jazzistica, sperimentale nella forma e fumosa, scattante, visceralmente appassionante nel tono.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 22/01/2015