Roma 2012 / Goltzius and the Pelican Company

Il cinema di Peter Greenaway è un calderone che da sempre ribolle delle suggestioni visive più luculliane e disparate, un’arte che oggi, con la frequenza sempre più esponenziale dell’uso del digitale, non poteva che aprirsi a nuove sollecitazioni barocche, al bombardamento impietoso di un’immagine sempre più frammentata e vivisezionata, giocata sull’accumulo e ammantata di una bellezza che non può che farsi anch’essa sempre più inquietante e imponente man mano che il postmoderno avanza e le varie realtà artistiche, da separate che erano un tempo, cominciano ad ibridarsi senza sosta, venendo a perdere definitivamente la propria singola specificità. Le nuove tecniche visive diventano foriere di un’ulteriore multi-stratificazione pittorica, nel cinema selvaggio e dionisiaco del glorioso autore gallese: i livelli della visione si sovrappongono, si intersecano, ruotano su stessi, si rincorrono, le parole sovrastano le immagini di fondo, gli innumerevoli filtri restituiscono una dimensione acquatica e rilucente dei fondali, l’arte coincide sempre più col sesso, le musiche suggeriscono palpiti e pelli d’oca che il cuore lo portano a battere fuori dal petto, tanto sono violente e controverse. E il piacere estatico di chi guarda, parallelamente, cresce al massimo grado e ne chiede ancora, mai pago di questo delirio folle e violentissimo, che scardina continuamente le maglie asfittiche dell’apollineo e con una geniale operazione pragmatica ancor prima che teorica violenta senza sosta le forme neoclassiche del Rinascimento e del Manierismo cinque-seicenteschi, decostruendone l’armonia e facendole confluire di peso nel Barocco e nelle sue forme più distorte e perverse.

Pioniere indiscusso del rutilante cinematografico derivato dalla pittura e dalle arti visive, il genio di Peter Greenaway illumina la sezione CineMaXXI del settimo Festival di Roma così come l’intera rassegna col suo ultimo film, Goltzius and the Pelican Company, secondo episodio di una serie di film dedicati ai maestri olandesi che include il precedente Nightwaching, dedicato alla figura e all’arte di Rembrandt, e che proseguirà con un’opera su Hieronymus Bosch prevista per il 2016 come cadeau per il cinquecentesimo anniversario della morte dell’artista. Qui il protagonista (si fa per dire, dato il canonizzato rifiuto di Greenaway per qualsiasi dettame cinematografico convenzionale) è invece Hendrik Goltzius, illustratore, stampatore e incisore alla corte del Margravio di Alsazia (interpretato con ironica maestria gigioneggiante da F. Murray Abraham), esponente di una corrente del Barocco inscrivibile nel cosiddetto “manierismo settentrionale”.

Ed ecco che i nodi si sciolgono, o meglio, s’intrecciano in grovigli ancor più fitti: la connivenza di un manierismo ancora vincolato a soggetti classici (dunque, già neoclassico nel suo essere fuori tempo massimo) e di tonitruanti elementi barocchi genera un cortocircuito di estetizzazione implacabile e violentissimo, un massacrante modello filmico tipicamente e meravigliosamente greenawayiano reso ancor più lacerante dalla fusione con i (già) deragliati immaginari tardo-contemporanei. Riguardo a Goltzius/Greenaway (in virtù di un’ovvia associazione tra l’autore e lo spirito del personaggio incarnatosi nel testo del suo film) un dubbio sopraggiunge spontaneo: trattasi di autore, artista, poligrafo camaleontico, genio o pornografo? Risposta: tali definizioni valgono tutte indistintamente, al punto da convivere in un coacervo di vitalismo panico, di corpi attoriali che vivono con nonchalance la propria nuda sessualità in sentieri immaginifici virtuosistici ma mai virtuosi, sboccati e ansimanti. Un viaggio dissonante e crudele che dilapida un patrimonio sempiterno e sempre giovane di provocazioni, di lampi, di brecce modernissime e luccicanti nella pittura del passato e nei suoi ammirevoli cunicoli colmi di dettagli e sottigliezze tutte da scoprire sotto la lente d’ingrandimento di un genio eccessivo, di piccole, constanti rivelazioni che dischiudono interi mondi.

Greenaway rifiltra la storia dell’arte con la sua solita, rigorosissima e al contempo folleggiante perizia, vive la tessitura visiva del suo film con assoluta dedizione dedicandole un piacere maniacale e compulsivo che arriva poi allo spettatore nella forma non (ri)mediata di una meraviglioso, sfrenato, affastellato incanto, un riversarsi fluviale di segni e significazioni. Prima di autodecantare sé stesso in una seconda parte più tradizionalmente conforme al suo cinema e non meno bella anche se senz’altro meno fuori di testa, nei primi abbondanti quaranta minuti Greenaway si sollazza con una rivisitazione personalissima del rapporto tra Adamo ed Eva, dei leggendari fatti occorsi nell’Eden, della loro sessualità mostrata con sghignazzata e irridente libertà. Un’assenza di restrizioni che in Greenaway è palese e ammirabile quanto irrefrenabile, che lo spettatore assorbe fin quasi ad invidiare l’invasata assenza di limiti di un uomo che mescola Dio e il sesso anale, che legittima il farlo come i cani perché in fondo dog, letto al contrario, è god.

Un valzer di vacua maestosità, Goltzius and the Pelican Company: ma attenzione, vacuo nel senso di conforme ai nostri tempi ancor più che a quelli barocchi, in un’epoca come quella attuale in cui l’eccesso trionfalistico e l’autoesaltazione vanno sempre più di pari passo con vuoti di senso siderali e con la consapevolezza di imperi (economici, artistici, culturali) alla fine della decadenza. E allora ecco che, citando Verlaine, Goltzius si impone come un folgorante caleidoscopio decadente, un avvolgente teatro di pulsioni, di quadretti sfatti dedicati ai 6 tabù sessuali dell’Antico Testamento (giusto gli ultimi due sono un po’ più debolucci), di languide intersezioni tra la fiction del filmato e la riconoscibile realtà di quadri veri che ad essa si sovrappone in sorprendenti, addirittura espressionisti cortocircuiti. Un tripudio dei sensi e di un certo, legittimato voyeurismo che è in fondo l’essenza profonda e irrinunciabile di ogni visione proibita a prescindere dall’epoca e dall’arte specifica, sia essa cinema o pittura, che tale visione la sostiene sulle proprie spalle, donandole immortalità e lustro eterno, rendendola insuscettibile al fluire del tempo e ai decadimenti che esso porta con sé.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 22/01/2015