
Che l’Italia sia un Paese in crisi non è più una notizia. Ma da quel lontano 2008 il vago echeggiare circa una decadenza socioeconomica della nostra nazione – un leitmotiv in auge sin dagli anni ’70 – ha preso delle pieghe ben più drammatiche.
Sono oramai diversi mesi che un governo provvisorio non eletto democraticamente ha ritenuto di dover salire in cattedra per risanare una recessione sempre più mordente. Sono anni che il nostro assetto nazionale lotta per non subire un tracollo definitivo e per non lasciarsi alle spalle milioni di cittadini senza più una meta, un lavoro o una pensione, vittime predestinate di una gestione azzardata e criminosa della cosa pubblica. Oggigiorno l’Italia può contare su più di 40 forme di precariato regolarmente ratificate che castrano le possibilità lavorative e di diritto di milioni di persone. A questo si aggiunge quel limbo professionale e pensionistico che sono gli esodati, ammontanti a circa 400 mila unità. La scuola è nuovamente in fermento contro tagli alle spese che la nostra classe politica vuole instaurare usando “il bastone e la carota”. La disoccupazione giovanile arriva alla cifra record del 35,1% mentre quella generale tocca il 10%. Nel mentre migliaia di uomini e donne lottano per il diritto alla propria dignità nelle carceri e nei CIE.
Eppure, mentre tutto ciò avviene, esistono degli universi paralleli come due rette che mai si incontrano, totalmente disinteressati e disancorati dal reale. Questa, in ultima analisi, potrebbe essere la descrizione che più calza all’ultima fatica di Paolo Franchi, che con E la chiamano estate firma un’opera totalmente incentrata sull’assenza. Quando le coordinate sociopolitiche sono quelle sopra elencate, le risposte dell’arte devono essere se non calzanti perlomeno in armonia con il mondo circostante. Con ciò si intende una cosa assai semplice: non si vuole qui affermare che in momenti di crisi l’arte – e quindi anche il cinema – debba essere necessariamente politicamente impegnata, partigiana o guerrigliera. Quello che però non si può accettare è che essa non abbia il senso della sua collocazione geopolitica, storica e sociale, ovvero che non tenga conto di tutta una serie di sensibilità proprie di frangenti storici come il nostro.
E la chiamano estate è un romanzo profondamente borghese che sul suo migliore solco storico vuol dipingere una coppia di innamorati – Dino e Anna – il cui unico problema in una vita di grande agiatezza è la loro impossibilità di fare sesso. I due vivono un amore platonico viscerale, ma se Anna non presenta particolari turbe Dino invece riesce a raggiungere il coito solo con sconosciute. Da qui la frequentazione di locali e individui scambisti. Nonostante Dino arrivi a frequentare anche uno psicanalista per rimediare ai suoi limiti mentre invita amorevolmente Anna a farsi un amante, l’uomo non riesce a risolvere i suoi disturbi. Il tutto è incorniciato in degli ambienti con luce sempre sovraesposta, candidi come il latte e con frequenti incandescenze visive. Complice un registro molto affettato, degli snodi narrativi insensati e una vacuità collerica, al povero Dino non rimane che farla finita. E amen.
Oggigiorno dirigere un’opera che afferma che i grandi problemi esistenziali di un uomo e di una donna – tanto gravi da indurre al suicidio – siano legati a turbe psicologiche che rendono impossibile l’atto sessuale significa o non essere coscienti della curvatura storica in cui risiediamo o agire in malafede, cioè a voler sviare l’attenzione su altri e più ridicoli problemi. Ma soprattutto innalzare a dramma che spinge al suicidio un banale coito significa umiliare umanamente migliaia di cittadini che ogni giorno provano a dare senso e dignità a delle esistenze davvero problematiche, fatte di professioni sottopagate, cure mediche insostenibili, diritto allo studio tormentato e tanto altro ancora. Fra questi cittadini molti si sono realmente suicidati, tanti altri – con pari dignità dei primi – provano in maniera commovente ad andare avanti, magari con una vita sessuale di coppia problematica quanto quella di Dino e Anna, eppure con la consapevolezza che occorre lottare perché è da tutta una vita che lo fanno. E ci riescono con una moralità e un decoro struggenti e mai con un nichilismo solipsista e decadente come quello di Dino e Anna. Ai primi va tutto il nostro rispetto, ad opere come E la chiamano estate tutto il nostro biasimo. Qui fuori c’è un’Italia migliore.