Roma 2012 / Dell’arte della guerra

Esercito. Guerra. Padrone. Schiavo. Odio. Che nessuno rimanga stupito: il vocabolario è netto e radicale. E il titolo del documentario di Luca Bellino e Silvia Luzi, Dell’arte della guerra, non è una forzatura autoriale di una lotta operaia. I rimandi con la celebre opera di Sun Tzu non sono opera registica ma grammatica riconducibile ai protagonisti che articolano le vicende, i fatti e la narrazione.

Nel torrido agosto Milanese del 2009 la fabbrica INNSE, in zona Sesto San Giovanni, è l’unico stabilimento ancora aperto, ultimo baluardo di una zona industriale e operaia ora votata alla speculazione edilizia per abitazioni civili. Nella ex “Stalingrado d’Italia” la INNSE decide di chiudere dopo 14 mesi di trattative lavorative con gli operai. Secondo i lavoratori ciò sta avvenendo in maniera immotivata, giacché la fabbrica è produttiva. A questi ultimi rimane l’ultimo e più azzardato gesto: salire su un carroponte alto venti metri e da lì sperare che il loro gesto resistenziale fermi lo smantellamento della fabbrica.

La storia dell’INNSE balzò agli onori delle cronache quell’agosto di tre anni fa, quando un’opinione pubblica intenta alle proprie vacanze marittime dovette ripristinarsi per dare conto della protesta operaia. Dopo otto giorni e sette notti i quattro operai saliti sul capannone e i tanti accorsi fuori a dar man forte ai loro colleghi la spuntarono. Difatti la INNSE non aveva motivo di chiudere visto la sua produttività: dietro c’era invece l’interesse padronale a riqualificare i terreni su cui sorgeva la fabbrica in nuovi condomini. Ma un compratore scongiurò questo iter e ad oggi l’industria è ancora operativa con margini di profitto che non ne lasciano intendere immediate e tetre rese.

Luca Bellino e Silvia Luzi tornano nelle fabbriche della INNSE per farsi raccontare dai quattro operai “che fecero l’impresa” quei concitati giorni. Lo sguardo operaio dei quattro è assai radicale, con una coscienza politica e di classe altissima e aspra. Da qui il profilo battagliero del documentario già intuibile dal suo titolo. L’unico rammarico di una storia operaia a lieto fine rimane quello dialettico: oggigiorno esistono due fazioni riconducibili alla lotta di classe operaia. La prima prevede un orizzonte umano con un vocabolario rigido e rigoroso, ortodosso, si rifà a modelli che necessitano un rinverdimento ma ha dalla sua delle vittorie sul campo insindacabili. Dall’altra esistono delle lotte meno consapevoli, più perbeniste che non prevedono una radicalità così brusca e non abbracciano un vocabolario vetero-marxista ma per le quali le sconfitte sono all’ordine del giorno. Sintetizzare queste due ideologie è la grande sfida del domani, per uno stato sociale che gioverà a tutti. Sia per i primi, finalmente compresi e accettati dalle masse, che per i secondi, che con una coscienza politica più spiccata potranno porre fine alle vittorie padronali. A simili sintesi sarebbero dovuti giungere anche i registi, che nel firmare un documentario partigiano, con delle accortezze in sede di montaggio e di ripresa che vorrebbero rimandare ad una mitica iconografia operaia, peccano poeticamente, rendendo il loro affresco molto macchinoso, retorico e dal passo troppo lento.

Riuscire a parlare alle masse ed essere compresi è parte integrante del percorso politico di simili lotte, sia operaie che cinematografiche. La risoluzione di questa sintesi politica deve essere una sfida non negoziabile.

Autore: Emanuele Protano
Pubblicato il 22/01/2015