Quarry

Nuova creatura Cinemax che guarda alla figura del reduce e cerca di unire i codici dell'hard boiled con lo scavo esistenziale tipico del cinema anni Settanta.

Quarry è l’ultima arrivata delle serie di casa Cinemax, emittente cable costola di HBO e storicamente dedicata alla messa in onda di film dall’alto tasso adrenalinico e testosteronico (prevalentemente action, horror e softcore). Dunque con un pubblico di riferimento costituito da uno “zoccolo duro” di abbonati, interessato e attirato proprio dall’offerta adulta del catalogo. Per tale ragione, quando nel 2012 l’emittente ha deciso di lanciarsi anche nel mercato delle serie televisive, ha privilegiato produzioni che – a differenza di quelle dei canali più generalisti – miravano ad esaltare anziché limitare le drammaticità delle vicende narrate, l’impiego della violenza e la messa in mostra di scene dalla forte carica erotica, rimanendo relativamente disimpegnate e divertenti. Così serie come Banshee e Strike Back, pur affrontando temi seri come la guerra, il terrorismo e la criminalità organizzata, giravano intorno a storie piuttosto semplici e divertenti, incentrate su personaggi monodimensionali (sempre in bilico tra l’archetipo e lo stereotipo) e caratterizzate da un ampio ricorso al politicamente scorretto e da un linguaggio visivo molto furbo e accattivante che si rifaceva dichiaratamente all’immaginario dei fumetti pulp e dei videogiochi più fracassoni.

Poi è venuta The Knick (2014), period drama caratterizzato da una matrice fortemente autoriale e molto distante, in termini di regia, scrittura, messa in scena e recitazione, dalla formula boobs & bullets oriented che aveva contraddistinto le precedenti produzioni Cinemax. Questa scelta, pur non essendo stata premiata in termini di ascolti, ha ricevuto enormi consensi dalla critica e non è stata in alcun modo abiurata dal canale, che oggi sembra orientato a cercare idee che sappiano coniugare le nuove ambizioni (qualità della messa in scena e profondità dei temi trattati) con le inclinazioni più care al pubblico di riferimento (rappresentazione della violenza senza filtri e scarsa attenzione alle limitazioni della censura).

È in quest’ottica che deve essere inquadrata e considerata Quarry: una serie dalle tematiche fortemente drammatiche – si parla di atrocità di guerra, di criminalità organizzata e della condizione traumatica dei reduci – piuttosto violenta e visivamente straordinaria, concepita a quattro mani da Graham Gordy e Michael D. Fuller (già coautori di Rectify) e interamente girata dal solo Greg Yaitanes (scelta rarissima nel mondo delle produzioni seriali e fortemente indicativa di una forte vocazione autoriale).

Mac Conway, intensamente interpretato da Logan Marshall-Green, è il protagonista: un reduce del Vietnam che al ritorno dalla sua seconda missione si ritrova senza un lavoro, con il proprio matrimonio in crisi, rifiutato dalla propria famiglia e disprezzato dalla società per le atrocità commesse al fronte. Mac viene presentato come un uomo spezzato, tormentato da fantasmi che lo perseguitano, in preda a una grave sindrome da stress post-traumatico e incapace di assorbire e metabolizzare lo sconvolgimento che è avvenuto dentro e fuori di sé dopo l’esperienza al fronte; tuttavia è anche sinceramente desideroso di appianare i problemi con la moglie, di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra e di trovare il suo posto nel mondo tornando ad essere un elemento utile e produttivo. Invece di nuova vita, però, arriva la proposta di Brooker (Peter Mullan), un losco criminale che gli offre di diventare uno dei propri sicari; la morte del migliore amico e commilitone (che aveva ricevuto la stessa proposta con tanto di anticipo in denaro) costringe Mac ad accettare l’offerta che aveva inizialmente rifiutato, almeno per il tempo necessario a ripagare il debito del compagno d’armi e impedire ritorsioni contro la sua famiglia.

Come facilmente intuibile dalla trama, Quarry trova la sua fonte in una serie di libri di Max Allan Collins, fiero rappresentante dell’hard boiled a stelle e strisce nonché autore di fumetti e serie televisive di successo.

Mac Conway, in questo ciclo di romanzi, appartiene a quella generazione di antieroi che da Travis Bickle al colonnello Kurtz arriva fino a John Rambo, tradizione che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta ha contribuito a ridefinire il concetto di reduce: privato di ogni connotazione eroicamente positiva (come era stato per la generazione dei padri e dei nonni, che avevano preso parte ai conflitti mondiali) e trasformato in testimonianza vivente degli orrori della guerra perpetrati e subiti, memento simbolico della cattiva coscienza dell’intero popolo americano.

Il personaggio ideato da Collins era il prototipo del duro senz’anima, privo di scrupoli o rimorsi e assolutamente spietato nel suo sporco lavoro;è a queste caratteristiche che Mac deve il suo nome di battaglia “Quarry” (ossia cava), un soprannome che rimanda a qualcosa di duro, vuoto, come fosse fatto di pietra.

Del resto un reduce accusato di crimini di guerra, incattivito dall’accoglienza di una moglie fedifraga e di una società ingrata, che finisce a fare il killer prezzolato e senza scrupoli per conto della mala, è senz’altro un’ottima base di trama per romanzi pulp scritti in pieno clima exploitation, oltre che un ottimo spunto di riflessione contemporaneo su come la violenza e l’omicidio siano espressioni della natura umana, di cui la guerra è solo una tremenda cassa di risonanza. La serie televisiva tuttavia – proprio nell’ottica di far convivere ambizioni autoriali e intrattenimento adrenalinico – ha trasformato quello che era un prodotto tipicamente hard boiled in un dramma esistenziale cupissimo e fortemente intimista. Il problema di una simile operazione è che i personaggi concepiti per funzionare in una cornice pulp (il reduce senza scrupoli che ammazza per conto della mala; il misterioso criminale; gli scagnozzi e le pupe) mal si adattano a quel contesto di infelicità esistenziale, traumi morali e hangover da cattiva coscienza che la serie ha l’ambizione di ritrarre. Perché l’hard boiled vince quando gioca sugli eccessi, mentre il dramma funziona se lavora sulle sfumature.

Per quanto riguarda l’aspetto prettamente visivo, Quarry è un prodotto pienamente riuscito e a dir poco superbo, girato con un uso dei singoli movimenti di camera, di inquadrature e tagli di montaggio in grado di competere e talvolta superare qualsiasi altro concorrente.

La serie offre una ricostruzione storica degli anni ’70 incredibilmente rigorosa, lavorando in maniera ineccepibile e meticolosa tanto sulle scenografie, sui vestiti, sui colori e sugli oggetti di scena, quanto sulla resa di un mood emotivo fatto di disillusione, rabbia, cinismo e tensione sociale. Soprattutto a livello fotografico lo show raggiunge dei picchi di rara bellezza (ogni singolo fotogramma è il tassello di un racconto visivo che, da solo, è in grado di arrivare al cuore dell’America di quegli anni). Così, le immagini delle auto, delle concessionarie, dei tinelli e dei motel diventano non tanto la semplice scenografia del racconto, ma il racconto vero e proprio, con una capacità di concentrare analisi, critica e nostalgia che ricordano Walker Evans o il miglior Eggleston. L’incredibile piano sequenza dell’ultima puntata, poi, è degno di quello realizzato da John Woo in Hard Boiled (giustamente considerato uno dei migliori di sempre in un film action) e contribuisce a rendere Quarry uno dei prodotti televisivi meglio realizzati degli ultimi anni, quantomeno a livello tecnico.

Dal punto di vista drammaturgico però, si paga il prezzo di dover armonizzare materiali, atmosfere e caratterizzazioni in forte antitesi tra loro: come detto, i personaggi monodimensionali di un romanzo pulp mal si conciliano con i temi esistenziali del drama contemporaneo, la cattiva coscienza e la PTSD. Gli scrupoli iniziali di Mac, i suoi traumi e il suo voler essere un bravo cittadino contrastano con la sua freddezza da killer e con la sua nostalgia del fronte; un contrasto che potrebbe essere molto interessante se ben gestito. Ma, almeno in questa prima stagione, la gestione dei conflitti interiori e dei passaggi da un mood emotivo all’altro risulta spesso schizofrenica, repentina e talvolta persino ingiustificata rispetto a quello che, fino a quel punto, si è raccontato in merito al personaggio. Ritrarre Mac come un uomo talmente distrutto dalla propria cattiva coscienza da piegarsi a terra senza fiato, incapace di muoversi per poi, pochi minuti dopo, mostrarlo ammazzare gente a sangue freddo, senza qualcosa di importante e forte a scandire il passaggio, è un’evoluzione che risulta troppo incongruente per essere credibile e interessante. In molti casi non solo Mac, ma tutti i principali protagonisti della serie si muovono e agiscono in modo contraddittorio: Joni, la moglie, alterna talmente tante sfumature caratteriali (passando da mogliettina comprensiva ad amante fedifraga, a vittima impaurita, a pazza isterica o cinica calcolatrice, spesso anche nel semplice passaggio da una sequenza a quella successiva) da rendere difficile individuarne la reale natura psicologica ed emotiva, dato che il tutto avviene davvero troppo velocemente e senza mai una vera giustificazione narrativa. Altri personaggi, invece, vengono un po’ smarriti per la strada con lo scorrere della stagione, in primis quello di Buddy (uno straordinario Demon Herriman), che poteva essere uno dei migliori secondi violini di sempre ma troppe volte viene dimenticato dal racconto e imprigionato in meravigliose sequenze – indimenticabili i suoi dialoghi dell’assurdo con la madre nel salotto di casa – che tuttavia sono assolutamente scollegate dal resto, rendendolo una sorta di corpo estraneo alla narrazione principale.

Anche la scelta finale di Mac sembra più imposta dalla necessità di fare andare avanti la serie che dalla maturazione di un percorso esistenziale e interiore: difficile pensare che dopo un’intera stagione spesa a cercare di recuperare il perduto status di marito, di cittadino, di figlio e di uomo rispettabile, contro i complotti di Broker e i debiti d’onore, contro i propri traumi e i tradimenti degli affetti, Mac decida (proprio quando ce l’aveva fatta) che essere un killer sia meglio che lavorare onestamente.

Una decisione che ancora una volta fa apparire il protagonista narrativamente debole e troppo vittima delle circostanze. Le questioni morali di Mac, i suoi scrupoli a diventare un sicario a pagamento non sono mai nettamente indagati né definiti e la serie invece di giocare sull’ambiguità del personaggio rimbalza continuamente da un eccesso all’altro. Questo insistito bipolarismo emotivo, invece di arricchirlo lo trasforma in pedina (criminale di guerra per caso, killer per mancanza di alternative, burattino nelle mani di un gangster) consentendogli di diventare sì il protagonista di cui il plot ha bisogno, ma al prezzo di imporre allo show un limite che penalizza una messa in scena altrimenti stupenda, tesissima e di grande presa emotiva, oltre che magnifica a livello tecnico.

Potremmo chiederci che senso abbia, oggi, raccontare un’altra storia sui postumi del Vietnam, sul dramma del reduce e sull’America degli anni ’70, ma a ben guardare l’attuale situazione degli Stati Uniti non è poi così differente da quella di cinquant’anni fa: un fronte bellico non più legittimato dall’appoggio incondizionato dell’opinione pubblica, il preoccupante riaffiorare dell’intolleranza razziale, i postumi di una gravissima crisi economica conditi da un senso generale di sfiducia e incertezza nel futuro.

Se con la seconda stagione, già rinnovata, Quarry avrà il coraggio di superare questo dualismo concettuale (perché se si vuole fare The Knick non si possono usare i personaggi di Banshee) potrà dimostrare che è possibile non solo raccontare l’attualità attraverso il dramma storico, ma farlo anche attraverso il connubio di pulp, cinema d’autore, action e esistenzialismo. Probabilmente il nuovo corso della televisione di intrattenimento dipenderà anche da come prodotti come questo e dalla loro capacità di appassionare e convincere entrambi i loro potenziali pubblici di riferimento, mettendo d’accordo amanti dell’autorialità ed entusiasti fan delle esplosioni fracassone.

Autore: Benedetto Solazzi
Pubblicato il 23/11/2016

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