Punti d'ascolto: le “nuove musiche” a Bologna e Milano

Due casi di Live Arts contemporanee che attraverso la ri-attualizzazione e la contaminazione artistica esaltano l'esperienza collettiva

Come ogni anno, la primavera porta con sé qualche bella sorpresa e magari alcuni momenti che diventano anche buoni spunti per riconsiderare quel particolare formato – ma forse meglio sarebbe definirla “situazione” – così come emerge da particolari appuntamenti musicali (entro cicli o rassegne artistiche) e soprattutto dai veri e propri festival musicali: fra Bologna e Milano, nei mesi più recenti, non sono mancati appuntamenti di straordinaria caratura artistica, l’offerta sembra anzi essere cresciuta sempre più a dismisura e spesso si rischia di perdere qualche importante presentazione. L’incontro diretto con musicisti/compositori è però occasione piuttosto rara, e così uno speciale appuntamento ospitato presso la bella esposizione di Céline Condorelli a Milano e i festeggiamenti per 25 anni d’attività di AngelicA Festival a Bologna sono diventati lo spunto per provare ad articolare due considerazioni più late in merito alle molteplici e sempre rinnovate contaminazioni fra suono, gesto, presenza nel loro rapporto col pubblico.

E’ così davvero un bel traguardo ripensare all’ampiezza temporale e alla continuità trasmesse dal Festival Internazionale di Musica AngelicA, occasione importante non solo per rallegrarsi del traguardo ottenuto, quanto soprattutto per aver potuto toccare con mano quegli scenari e quelle zone di confine che la ricerca musicale continua a contraddistinguere con forza.

Le “nuove musiche” in larga parte continuano a rappresentare un complesso fenomeno più vicino a quelle situazioni, come un fiume carsico, che pur mantenendo la loro vitalità, restano in larga parte poco visibili ed avvertibili, specie se raffrontate con quelle politiche “spettacolari” che ricercano piuttosto momenti di visibilità molto appariscenti, spesso in una confusione crescente di fini e di mezzi che certo non giovano ne’ ai proponenti, ne’ ai destinatari dell’offerta musicale. Lodi incondizionate dunque all’impostazione (e agli esiti, davvero assai alti) del progetto 2015 di AngelicA, articolato in due “momenti” fra aprile e maggio, che proprio in virtù di tanta generosità ed intelligenza di scelte, ha dato il “la” anche ad una serie di riflessioni legate a questioni più generali riguardanti il piacere e l’importanza dell’ascolto diretto, in condizioni di attenta e partecipata vicinanza alle ragioni dei creatori e delle creatrici di nuovi suoni, così come nondimeno si è potuto anche esperire a fine aprile, in una lunga serata presso Hangar Bicocca, a Milano, con la memorabile performance di John Tilbury e John Lely.

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BOLOGNA “ANGELICA”

Come porsi dunque, oggi, di fronte ad un “oggetto” complesso come la riproposizione di una serie di “pezzi” d’epoca – “capisaldi” di musica elettroacustica, spesso impropriamente definita “elettronica” – veri e propri landmarks della “musica impegnata” (secondo una definizione del tempo) – a distanza di quaranta/cinquanta anni? Quali canali comunicativi mettere in atto, e soprattutto oggi, consapevoli quali siamo delle molte e drastiche trasformazioni occorse nella nostra società, dopo interi decenni dove tutta un’attitudine all’ascolto critico, al confronto, all’analisi hanno dovuto faticosamente ricostituirsi in nuovi percorsi di viabilità e visibilità? Soprattutto, quale eredità è possibile cogliere, posto che si siano ri-contestualizzate ed inquadrate la maggior parte delle delle premesse legate alla nascita di simili “segni di un tempo”?

La serie di questioni aperte non è mero esercizio retorico ma una stringente ed inevitabile esigenza nel riaccostarsi ad un “corpus” artistico che ha profondamente segnato un’epoca, rappresentandone quasi un’epitome, finendo poi però con il malinconico e progressivo eclissarsi dalla pubblica arena.

Se una memoria “indiretta” è stata comunque consegnata alla storia, mista a valutazioni e giudizi spesso approssimativi che poco avevano a che fare con quella forza e quell’urgenza politica che sono i tratti ed i caratteri – indubbiamente più eclatanti – di uno straordinario patrimonio politico e sociale, l’esperienza diretta di simili opere – nella loro esemplare forza ed “engagement” – è diventata esperienza del tutto virtuale…

Meritoria davvero dunque l’operazione di AngelicA Festival che quest’anno, per gli appuntamenti del venticinquennale, proponeva già un momento speciale di “avvicinamento” al periodo di maggio (e che al contempo era parte integrante del più vasto progetto annuale “Resistenza Illuminata”) – e che ha presentato il recupero e restauro dell’integrale della produzione “elettroacustica” di Luigi Nono, affiancandola ad un seminario di due giorni all’Università di Bologna, nonché a veri e propri “ritratti” introduttivi, affidati a musicisti e studiosi artefici della non semplice operazione di storicizzazione e ri-attualizzazione. Non sembri eccessivo parlare qui di attualizzazione – in realtà, la particolare natura dei lavori, strettamente collegati a forti urgenze espressive (strettamente legate alle precise circostanze storiche e alla biografia del loro autore – il sofferto “contesto” in cui nacquero tali lavori) richiedeva che tutti gli elementi costitutivi recuperassero una chiarezza e leggibilità in modo da risultare condizioni primarie per una piena comprensione. Dunque ripartire dal restauro degli antichi nastri registrati, creando duplicati in digitale con la ripulitura e il recupero di simili “testi” acustici – per facilitarne l’ascolto e la conoscenza diretta, nonché la circolazione futura, dal momento che anche i coevi documenti sonori dei dischi d’epoca si sono in gran parte persi, con pochissime eccezioni – è già meritoria operazione, sviluppata da un team di studiosi seri ed aggiornati che negli ultimi anni hanno via via affrontato (e pure sistematicamente) interi settori della complessa produzione noniana, producendo in parallelo importanti studi e cataloghi di riferimento (basti pensare alla serie di cataloghi/opere pubblicate da Olschki Editore, sotto le cure del compianto Giovani Morelli, di Gianmario Borio e di Veniero Rizzardi), sempre in collaborazione con il prezioso apporto della Fondazione Luigi Nono di Venezia.

L’importanza dei risultati (così come si è potuto concretamente verificare nelle due emozionanti settimane di metà aprile a Bologna) s’è potuta avvertire nell’impegno dedicato alle serate di concerti presso il teatro San Leonardo/Centro di ricerca musicale dell’Associazione Culturale Pierrot Lunaire, dove si è scelto di effettuare i concerti di musica acusmatica (diffusa cioè da amplificatori acustici, senza esecutori dal vivo – neanche in quelle partiture dove inizialmente era previsto un interprete “live”) puntando su pochi, essenziali – ma non per questo meno significativi – elementi di supporto all’esperienza diretta degli spettatori o meglio degli uditori. Le scelte operate (non molte ma efficaci, come ad esempio le suggestive luci blu oltremare sul soffitto dell’ex-cappella riconvertita), il ricorso alla “spazializzazione” dei suoni (tramite otto punti di diffusione sonora in sala) e soprattutto la sempre precisa e circostanziata introduzione ai singoli pezzi, hanno contribuito a sviluppare una sensazione di piacevole concorso all’accompagnamento di un repertorio che ben poco aveva di facile sulla carta, ma che necessitava di un’occasione (ovvero un progetto) di riavvicinamento dal vivo (o meglio: in audito) svolto con intelligente perizia e rispetto.

Nella settimana a seguire si è poi attivata una delle più straordinarie programmazioni viste e sentite di recente: una sorta di grande festa impostata su un’ampia campionatura fra le molte “linee” della ricerca sonora e musicale degli ultimi anni, come spesso si era già potuto seguire a Bologna ma che al tempo attuale sempre più paiono quali preziose occasioni di finestre spalancate sugli orizzonti dell’immaginazione sonora. Come già impostato dal 2011 in avanti, il festival ha invitato musicisti/compositori in qualità di curatori a immaginare ed impostare il vero e proprio programma. Ecco che da Christian Marclay a John Oswald, da Nicholas Isherwood ad Alessandra Novaga, da Arnold Dreyblatt a Gianni Gebbia, e via via Charles Curtis, Chris Cutler, Ilan Volkov, si sono potute impostare alcune linee programmatiche di grande e variegata ricchezza immaginativa, ospitando figure di alto rilievo come Elliott Sharp, Dagmar Krause (Slapp Happy), dal Karlheinz Stockhausen della svolta di fine anni ’60 (una vera e propria “Tre giorni per Karlheinz” con gli splendidi INORI del 1974 e STIMMUNG del 1968) fino a giovani compositori quali Eyvind Kang e Cassandra Miller (dal Canada) e molti altri ancora, attraverso i tanti rivoli e tracce che hanno composto un panorama di frastagliata ma multiforme bellezza.

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A MILANO NEL CUORE DELL’ HANGAR

A fine aprile (il 28/04 per la cronaca), all’interno della bella e pur complessa mostra di Céline Condorelli (1974) dal titolo bau bau, presso l’Hangar Bicocca, si è avuta la fortunata circostanza di poter riascoltare John Tilbury – pianista, studioso ed esperto di tanta musica di ricerca emersa fra gli anni sessanta e settanta – che si è prodotto in una vera e propria performance articolata a 360 gradi e aperta a suggestioni provenienti dalla variegata serie di installazioni costituenti l’esposizione.

Condorelli ha invitato non solo Tilbury ma anche il più giovane compositore inglese John Lely a ripensare come rapportarsi al corpo di un’esposizione che a sua volta non ha scelto criteri meramente rappresentativi, ma che s’inscrive a buon titolo nell’articolata traiettoria che già da alcuni anni la giovane artista italo-britannica sta esplorando lungo le frastagliate linee di un’arte che guarda a forme e ipotesi di contaminazione fra architettura, design funzionale e arte partecipativa. Dalle ricerche sulle support structures, ovvero sull’interazione fra modularità e funzionalità, Condorelli è pervenuta in tempi più recenti a modalità di lavoro che riflettono ed auscultano il contesto espositivo con massima attenzione, preferendo poi attuare strategie di ripensamento e di riscoperta di quelle che sono abitudini spesso consolidate, inveterate, nel “rituale” di visita a un’esposizione d’arte. Ecco così che anche l’occasione del concerto dal vivo ben si è prestata ad una serie di precisi e sistematici slittamenti di prassi operative e comportamentali. Già opere come gli Additionals (ovvero Oggetti addizionali – 2012), il cui titolo nasce in dialogo e in risposta – sorta di “oggetti in più” – agli Oggetti in meno (1966) di Michelangelo Pistoletto, sono state una prima serie di sculture impostate dall’artista sull’inter-relazione diretta fra lavoro e amicizia. Attraverso la collaborazione con altri cinque artisti e musicisti (quali Jesse Ash, Beatrice Gibson, Will Holder, Alex Waterman e John Tilbury stesso, per il progetto The Tiger’s Mind), seguendo l’omonimo spartito musicale del compositore britannico Cornelius Cardew, questi lavori sono stati concepiti per articolare le relazioni tra i personaggi coinvolti nella composizione e si presentano come sculture che sono al tempo stesso oggetti di scena, strumenti funzionali e strutture architettoniche.

Nella presentazione del 28 aprile scorso, comunque, già l’ubicazione del pianoforte con il suo pianista – John Tilbury, disposto ne’ più ne’ meno come se fossero anch’essi parte degli oggetti e delle sculture posizionate nel vasto hangar a sviluppo orizzontale (lo spazio “minore” dell’istituzione) – risultava in un incontro diretto con la fisicità dell’interprete e con la materialità dei suoni (pur essendo il repertorio scelto particolarmente meditativo e sempre suonato “piano”, quando non “pianissimo”). L’attenzione di Tilbury nei confronti delle specificità ambientali ed installative della disposizione “a isole” delle varie componenti dell’esposizione si è manifestata ulteriormente nello sviluppo del concerto/performance, quando l’interprete ha iniziato una lenta e graduale perlustrazione di postazioni e punti di vista (o meglio: d’ascolto), accompagnato dal pubblico convenuto. La dinamica emergente fra componente riflessiva e quella aleatoria si è così andata rafforzando ed incrociando, mettendo in primo piano quanto l’esperienza diretta dell’esposizione diventasse così a sua volta luogo e strumento della performance sonora. L’ampio arco di sviluppo toccato quella sera è così andato da momenti di assorta rarefazione acustica a punti più incantatori, fino a un movimento che è diventato occasione di auto-riconsiderazione del proprio ruolo di osservatore. Quest’ultimo difficilmente se non raramente neutro, bensì forza in con-causa di un processo più allargato: quello di ridefinizione e consapevolezza del gioco di interazione fra componenti e forze integranti l’esperienza del concerto in mostra (o ancor meglio di mostra-concerto) uno sforzo autentico nell’utopia, pur tutta concreta, di un’esposizione tutta da suonare e lasciar risuonare.

Autore: Francesco Bern…
Pubblicato il 14/07/2015

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