Pietà

L'addio al passato di Kim Ki-Duk

Lo si era già accennato nell’introduzione allo speciale: Pietà è in un certo senso il film di passaggio all’interno della seconda fase registica del suo autore – contraddistinta prima dalla libertà diaristica ed amatoriale di Arirang e Amen e poi dai congegni ossessivi del post Pietà – e allo stesso tempo è il film che più di ogni altro certifica il definitivo affrancamento dal passato. Ancora più di Arirang o Amen perché, al contrario delle due opere precedenti di evidente rottura concettuale, Pietà sembra volersi riconnettere, almeno ad un livello superficiale, agli schemi narrativi che hanno reso grande Kim Ki-Duk (la dialettica uomo-donna, il masochismo delle relazioni, l’intreccio estremo di sesso e violenza, ecc...) come un ultimo tentativo di tornare indietro nel tempo. Ma nonostante questo (o forse proprio in virtù di questo) sentiamo che qualcosa è cambiato, che lo sguardo di Kim non è più lo stesso, ora più programmatico e paradossalmente chiuso, nonostante l’utilizzo ricorrente dello zoom e della camera a mano, coerente con il nuovo corso estetico intrapreso a partire da Arirang, che dovrebbe donare maggiore dinamicità alle sue immagini. A conti fatti il vero problema risiede piuttosto nella scrittura, nella didascalica emblematicità del racconto, a metà strada tra la tragedia greca, aggiornata a partire dalla saga della vendetta del connazionale Park Chan Wook, e l’apologo morale, in cui si pone l’accento sul ruolo corruttivo del denaro (“l’inizio e la fine di tutte le cose”) e l’alienazione del lavoro, che porta le vittime a morire nelle fabbriche e nelle botteghe per mano degli attrezzi del proprio mestiere, in un circolo ossessivo della tortura e della violenza che da qui in avanti si farà sempre più oscuro, pessimista, implacabile (pensiamo in particolare a One on One e The Net). Con questa nuova fatica il regista coreano allarga lo sguardo alla crisi economica contemporanea, riflettendo in particolare sul ruolo delle macchine. La bella sequenza del suicida esplicita questa lettura quando, senza apparente motivo, la mdp passa dalla veduta della periferia di Seoul a brevi inquadrature dei macchinari di lavoro utilizzati dai creditori, vittime del protagonista strozzino. Macchine completamente automatizzate, pronte a sopravvivere alla morte dell’uomo e a rilanciare, in un panorama ormai post-umano, il ciclo produttivo. Eppure qualcosa non torna, come se nel tentativo estremo di recuperare il tempo perduto, Kim Ki Duk avesse bisogno di restringere il campo, di darsi un ordine e una struttura che possano permettergli di tenere il controllo dell’opera, con il rischio però di rimanerne intrappolato fino a privare il suo film dell’immediatezza brutale che lo ha sempre contraddistinto. Si avverte qui una maggiore necessità di dire, di voler far passare un certo pensiero come fosse una sorta di teorema. E in questa necessità (che diverrà sempre più forte negli anni successivi) si avverte una maggiore sfiducia nei confronti dell’immagine, come se non fosse più sufficiente da sola ma avesse bisogno di doversi accompagnare ad un discorso, di dover essere raddoppiata da una cornice “teorica” e narrativa fortemente codificata, con tanto di colpi di scena, doppi giochi, simmetrie, sottolineature. Questa necessità concettuale la ritroveremo espressa con maggiore convinzione nella sconsolata circolarità ossessiva a cui Kim approderà un paio di anni più tardi con One on One, quando deciderà di rinunciare, forse definitivamente, a qualsivoglia principio narrativo, per abbracciare l’idea di un cinema didattico che interviene proprio a partire dall’incepparsi del meccanismo, nel cortocircuito narrativo.

Autore: Giulio Casadei
Pubblicato il 19/12/2016

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