Paradise: Love
L’urticante regista austriaco Ulrich Seidl apre la sua personale trilogia sul Paradiso con questo film di respingente crudeltà, velenoso e al vetriolo su tutti i fronti.

Delle turiste austriache lasciano la loro famiglia per recarsi in Kenya: in quelle spiagge, giovani di colore si affollano per soddisfare i desideri di vecchie signore, sia come venditori ambulanti che, soprattutto, in qualità di accompagnatori sessuali prezzolati. La prostituzione dei ragazzi e degli uomini del luogo è un fenomeno che manda in solluchero le attempate europee, che vedono così appagata la loro sete di trasgressione erotica. L’urticante regista austriaco Ulrich Seidl apre la sua personale trilogia sul Paradiso con questo film di respingente crudeltà, velenoso e al vetriolo su tutti i fronti: contro la natura materialista e infima delle illusioni e delle pulsioni, contro la grettezza dei desideri fuori tempo massimo, per ragioni anagrafiche (e morali). Il punto di partenza del trittico sono le virtù teologali: amore, fede e speranza, puntualmente capovolte in delle narrazioni di allucinante sadismo che mirano a mettere in crisi gli equilibri e le strutture rassicuranti dello spettatore e dei personaggi. In particolare il secondo episodio spingerà il piede sull’acceleratore della blasfemia e dell’iconoclastia, approdando a scene controverse e disarmanti che testimonieranno l’involuzione pericolosissima di una fede portata avanti in modo maniacale.
In questo caso il livore del regista contro la stupidità umana e le sue rivoltanti scorciatoie non è però da meno: la protagonista Teresa e la sua amica sono delle matrone giunoniche che approfittano della disponibilità di coloro in cui si imbattono ma con l’aggravante di tentare anche una specie di didattica educazione sentimentale. Della serie: toccami così, non fare in questo modo, correggi quest’approccio, così va meglio, così va peggio. Un tentativo di indottrinamento erotico che in un contesto così squallido si colora non solo di grottesco, ma anche di riprovevole. Ed è nelle pieghe di queste tonalità che Seidl s’insinua, attaccato al corpo della sua protagonista Teresa con neutralità documentaristica, per infilare il coltello nella piaga e lasciare che torni a sanguinare. Seidl vuole lo scandalo, lo cerca consapevolmente e lo trova: il suo film scoperchia una realtà capace di gelare il sangue nelle vene, con un compiacimento non sempre apprezzabile e quasi mai etico ma capace tuttavia di agire sullo spettatore come un detonatore. Il senso di oppressione è palpabile dall’inizio alla fine, nonostante un avvio piuttosto fuori luogo (l’autoscontro con protagonisti dei portatori di handicap) e un finale che si limita a sfumare i colori dell’eccellente fotografia di Ed Lachman piuttosto che a concludere per davvero. Non va sottovalutata però, la dimensione di beffardo saggio anticapitalista e anticoloniale, in cui entra in gioco l’ironia tragica e ghignante di un autore che per forza di cose non può suscitare risate involontarie nel momento in cui si ritrova ad estremizzare alcune situazioni oltre ogni limite. Come leggere in altro modo, dopotutto, la scena in cui le donne si passano da tra di loro un ragazzo nel tentativo non troppo riuscito di farlo eccitare? Una sequenza che è la punta dell’iceberg di un cinema che aderisce in modo millimetrico al martirio della carne. Come nel successivo Paradise: Faith, anche qui la fisicità diventa infatti una sorta di stazione di una via crucis. Azzannata dai morsi del fondamentalismo religioso in quel caso, costretta all’ingiuria della prostituzione qui, di momento in momento, di passaggio in passaggio. Cambiano i moduli del racconto, ma la radice è la stessa. La solarità dei luoghi mal si intona con gli orrori sentimentali che essi ospitano, al punto da fungere da cornice totalmente e volutamente fuori luogo. Le scene in interni accentuano invece la crudele paradossalità delle situazioni. Margarethe Tiesel, che interpreta Teresa, si dona al regista senza remore, nonostante la sua interpretazione non si sia sempre ripresa frontalmente: la densità malata del personaggio la si ritrova spesso nelle occhiate di sbieco, nei sorrisi avidi di piacere visti per metà o quasi di profilo, nelle orge come nell’oscurità, mentre discetta di peli pubici o quando ammette, con squallido candore: Sono troppo vecchia e brutta.