Paradise: Faith
Faith si fa strada lentamente con piccole, minute rivelazioni che deflagrano nella mente di chi si lascia inchiodare da immagini senza vie di fuga, dilatate e affilate.

Tre donne, tre corpi, tre storie di inconsapevole disperazione e orrore del quotidiano: il nucleo tematico della trilogia di Paradise è la messa a nudo della virtù intesa come velo di ipocrisia borghese, un ambiguo percorso di redenzione che gira a vuoto nella gabbia di quella che, in altri autori, potremmo tranquillamente definire come alienazione. Nel caso di Faith – presentato al Festival di Venezia nel 2012 e vincitore del Gran premio della giuria – il percorso di redenzione della non più giovane Maria (Maria Hofstätter) passa per sessioni di preghiera, autoflagellazione e tentativi di proselitismo nei confronti dei più deboli e marginali tra gli uomini. La fede si rivelerà un alibi di carta, un feticcio di pulsioni e solitudini incolmabili. Lo spettatore osserva, giudica, compatisce, prova disgusto. Le prospettive sono rigide: siamo privi di uno sguardo leggero e mobile, dalla finestra dell’inquadratura che Ulrich Seidl predispone. La sua è un’estetica peculiare a metà tra il quadro e la camera di sorveglianza. Prima che una trilogia quella di Seidl è un grande, ipertrofico percorso cinematografico, che è stato diviso in tre episodi per mera esigenza di packaging. I tre film sono indissolubili ancor più che nella (per certi versi affine) trilogia dei colori di Kieslowski, in quanto raccontano tre varianti della medesima storia.
L’opera di Seidl è complessa da avvicinare: linguisticamente rigorosa, tematicamente scabra e persino schematica, a un passo dall’orrore puro eppure grottescamente umoristica. Il vocabolario di questo linguaggio è composto da corpi (spesso nudi e vistosamente imperfetti), sviluppo narrativo minimo e pochissimi “personaggi”. Il regista austriaco costruisce degli equilibri e poi li mette alla prova: ad esempio, introducendo nel ripetitivo quotidiano di Maria un marito che è stato lontano da casa per due anni, musulmano, paraplegico e impotente. Maria viene messa alla prova, personaggio estremo a fronte di condizioni estreme, quasi da teorema o esperimento di laboratorio. Siamo a un passo dall’orrore e dalla catastrofe, sempre evitata da un cinema che rifiuta le scene madri e l’amplificazione emotiva. L’orrore nasce dai corpi, dalla consapevolezza di stare guardando qualcosa che ci somiglia pur essendo disumano: è in questa uncanny valley che Seidl costruisce situazioni e conflitti in un mondo filmico claustrofobico e indifferente. Una crudeltà a volte discutibile che apre squarci nella coscienza dello spettatore, complice ed obiettivo ultimo di Seidl. Faith si fa strada lentamente con piccole, minute rivelazioni che deflagrano nella mente di chi si lascia inchiodare da immagini senza vie di fuga, dilatate e affilate.
Seidl è un regista di metodo: ciò che di buono emerge dal suo cinema è frutto di uno stile a metà tra il realismo documentario, il pornografico (inteso anche in chiave riflessiva: sono cosciente del mio sguardo di spettatore e complice della rappresentazione) e il registro del grottesco. La scelta di includere attori non professionisti e di costruire il film a posteriori in sala di montaggio rientra in un’estetica del realismo cinematografico che non ha tanto a che fare con la cinematografia nazionale austriaca quanto con un ecosistema globale che include, ad esempio Claire Simon e Kelly Reichardt. La pornografia cinefila è invece terreno minato, rigettato da molti, che tuttavia nel caso di Seidl assume un valore di epifania destabilizzante che manca a registi più innocui come il connazionale Michael Haneke. Seidl gioca sul confine incerto tra provocatorio e pornografico, scegliendo consapevolmente di far soffrire lo spettatore. Il rischio del voyeurismo e della pornografia accompagna la sua opera fin dagli esordi documentaristici, inscritto nella stessa scelta del punto di vista ancorato agli ambienti intimi, alle camere da letto, di fronte all’atto sessuale. A tutto ciò si aggiunge un gusto del grottesco che destabilizza la rappresentazione. Quando vediamo Maria e Nabil, i due coniugi di Faith, inscenare una guerra di religione sublimata in guerra dei sessi (e viceversa), tra spruzzi di acqua santa a tradimento e attentato ai numerosi crocifissi appesi nella casa-prigione, sembra quasi di assistere a un inserto slapstick da cinema muto. E quando queste dimensioni collidono e rintracciamo parallelismi tra lo strisciare di Nabil e quello di Maria scopriamo che Seidl è problematico e affascinante proprio per la sua ambigua complessità.
Queste sono alcune possibili coordinate per orientarsi in un labirinto di ambiguità quale è l’intero cinema di Seidl. Per l’autore è fondamentale mettere alla prova i limiti del rappresentabile: il suo cinema vuole essere uno specchio delle ossessioni e della cattiva coscienza dello spettatore. Cinema misantropo e misogino, forse. Ma la potenza delle immagini è innegabile, l’incandescenza e la rabbia indiscutibili. Soprattutto, è un cinema che costringe a una presa di posizione: non si può essere indifferenti alla disperazione dei suoi personaggi, dei corpi piegati, deboli, stravolti. Maria è vittima e carnefice, sana e malata. Nabil e Maria sono due corpi in movimento e in relazione, che si attraggono e si respingono. Il terzo corpo, quello dello spettatore, è costantemente interpellato. Come porsi di fronte a questo spettacolo viscerale e inquietante, a questa panoplia della morte? La ricchezza del cinema di Ulrich Seidl sta tutta in una domanda a cui si può al massimo reagire, ma non rispondere.