O.J.: Made in America
Un'acuta analisi storica e sociale dei miti della società americana, un documentario brillante che fa da complemento perfetto alla storia già raccontata in American Crime Story.
“I’m not black, I’m not white, I’m O.J.”
Per parlare di O.J.: Made in America è necessario innanzitutto partire dal titolo, scomponendolo in due parti distinte e separate da una punteggiatura estremamente chiarificatrice: l’uomo e il Paese, il sintomo e la causa, il prodotto e la società che lo ha creato. Made in America, ovvero qualcuno che solo in quel luogo poteva diventare ciò che è stato.
O.J.: Made in America non è solo la storia del processo a O.J. Simpson, è la storia di una tragedia americana, “An American Tragedy”, che sono sia le ultime parole del documentario che il titolo della storia di copertina di Time del 27 giugno 1994, quella dell’arresto dell’ex campione di football per il doppio omicidio dell’ex moglie Nicole Brown e di Ron Goldman.
L’articolo inizia con le parole «O.J. Simpson was, essentially, a very great runner» e la miniserie in 5 puntate di ESPN comincia la propria storia dalla stessa prospettiva, raccontando di un grandissimo atleta, un ragazzo disciplinato, affascinante e di talento che però è anche un afroamericano che viene da un ghetto popolare di Los Angeles, il complesso residenziale di Potrero Hill.
La storia inizia come il più tradizionale dei sogni americani, con O.J. che emerge grazie al suo talento e finisce per diventare una vera celebrità del campionato universitario (che da tradizione americana è fucina per atleti che in gran parte saranno chiamati a dar conferma di sé nella NFL) in una squadra e in un campus, quello della USC, non soltanto a maggioranza bianca ma anche estremamente borghese.
Tutto succede però in un anno cruciale per l’America e per il mondo: il 1968, in cui O.J. viene nominato atleta dell’anno e vince l’Heisman Trophy, ma anche quello in cui la data del 17 ottobre resterà nella storia per il pugno nero alzato di Tommie Smith e John Carlos sul podio della finale maschile dei 200 metri alle Olimpiadi di Città del Messico, un atto di coraggio civile e solidarietà che i due pagheranno con l’isolamento e l’ostracismo per tutta la vita.
Due anni prima c’era stata la rivolta di Watts a Los Angeles, sei mesi prima a Memphis era stato assassinato Martin Luther King e subito dopo, sempre a Los Angeles, era toccato a Robert Kennedy. Gli atleti riuniti attorno al Progetto olimpico per i diritti umani avevano discusso tra loro la possibilità di boicottare l’appuntamento dei giochi contestando l’assenza di allenatori neri e la riammissione del Sud Africa. Nel ’67 Muhammad Ali aveva rifiutato l’arruolamento nell’esercito, vedendosi di conseguenza strappare la corona dei pesi massimi e Kareem Abdul Jabbar, che all’epoca era ancora Lew Alcindor, aveva persino rinunciato a un posto nella nazionale olimpica.
Cosa faceva, invece, O.J. “The Juice” Simpson? Si crogiolava nei benefici dei bianchi e diventava il loro cavallo di razza, correva per loro e prendeva le distanze dalle lotte, per il bene della propria carriera e per la rivendicazione di un’identità che pretendeva si stagliasse al di fuori dei confini razziali, compiendo una scelta che ne avrebbe influenzato la vita per sempre.
O.J. aveva l’illusione di poter essere soltanto sé stesso, in nome della propria eccezionalità, e il documentario ci mostra l’escalation – ritratta clinicamente, con dettagli quasi scientifici – del processo che trasformò un ragazzino nero del ghetto che correva veloce in una “honorary white person”: recordman dei Buffalo Bills, testimonial nero di brand celebri («For us, O.J. was colorless» dice Frank Olson, all’epoca chairman della Hertz che scelse O.J. come testimonial di un famoso spot), sposato a una bianca Barbie in carne e ossa, businessman, attore e VIP che vive in un quartiere in cui è l’unico nero ed è sempre perennemente circondato da amici, conoscenti e soci.
O.J. guardava a sé stesso come a un esempio, a un ponte tra l’America black e quella bianca, ma la realtà era che non faceva parte di nessuno dei due mondi, vivendo sotto la campana di vetro della ricchezza e della celebrità che lo separava – e lo proteggeva – da entrambe. Almeno, finché non commise l’errore di finire sotto processo.
Come American Crime Story: People V. O.J. Simpson, di cui è complemento perfetto, O.J.: Made in America è uno studio non solo sui guai con la legge e sui drammi personali dell’uomo ma anche su come questi si sono intrecciati alle grandi questioni sociali americane, facendone un simbolo così eclatante della propria epoca: razza, ricchezza, violenza, fama, religione con lo sfondo di mezzo secolo di evoluzione dei media e del sistema della celebrità senza precedenti.
Un affresco complesso di cui il “processo del secolo” è soltanto una piccola parte, perché la docuserie (come lo show di Ryan Murphy) non si concentra sulla storia giudiziaria ma sulle forze che hanno generato quel crimine e quel risultato processuale, ovvero la storia di Los Angeles soprattutto, ma di riflesso la cultura di un intero paese.
L’eccezionalità di questo documentario sta soprattutto nella capacità di chiarire come, in modo totalmente casuale ma anche estremamente simbolico, attraverso la vita di O.J. Simpson sia possibile raccontare di tutto ciò che è stato importante in USA negli ultimi 50 anni.
Ragionando su un doppio livello, quello biografico e quello di sistema, della società e della storia, giocando abilmente sui labili confini che nel microcosmo della celebrità dividono questi due comparti, O.J.: Made in America è un documento eccezionale che parla dell’epoca contemporanea con l’estetica, la meticolosità e l’imparzialità che si dedica alla Storia, mostrando sempre un doppio punto di vista e dando enorme spazio al footage originale (che data la fama del protagonista e gli eventi coinvolti, è tanto e di grande qualità) ma anche alle testimonianze di amici, nemici, familiari e testimoni oculari dei fatti, esplorando l’umanità di persone reali che a volte sono così colorite e over the top da sembrare personaggi finzionali.
Ma chiaramente, il personaggio più affascinante di tutti è proprio Simpson, nella sua complessità che ne fa al tempo stesso un modello, una devianza agghiacciante e una figura tragica e patetica.
O.J.: Made in America racconta dell’ascesa e della caduta di un idolo, in una sorta di parabola del sogno americano di andata e ritorno, dove l’eroe nasce dal nulla, si fa strada, ma a quel nulla è destinato a tornare: O.J. Simpson il campione, il recordman, la celebrità, l’assassino, il rinnegatore della sua razza e poi il paladino della giustizia black post Rodney King, ma soprattutto la vittima, in parte inconsapevole in parte anche complice, del proprio Paese e delle logiche con cui l’America innalza e seppellisce i propri feticci.