Kasaba

di Nuri Bilge Ceylan

Alle sorgenti del cinema di Nuri Bilge Ceylan: il suo esordio tra ragazzi terribili e adulti complessi, tra neve e fuoco

Kasaba di Nuri Bilge Ceylan

Ricordate il personaggio di Aydin ne Il regno d’inverno, Palma d’oro 2014, e in particolare la sequenza del confronto col bambino, che viene interpellato dal notabile a cui dovrebbe chiedere scusa, finché il piccolo sviene? Ecco, quel magistero in grado di penetrare esattamente la natura umana, quella maestria viene da lontano. Nuri Bilge Ceylan, uno dei più grandi registi del cinema autoriale oggi, ha esordito nel 1997 con Kasaba (Piccola città), ora disponibile su MUBI. Tornare alle sorgenti del suo cinema è una pratica imprescindibile per capire come si è giunti all’autore attuale: Ceylan, che riprende i motivi del cortometraggio Koza, si pone subito in controtendenza con la tradizione del cinema turco di fine Novecento. Un cinema che voleva essere principalmente popolare e raccontare alle masse le grandi questioni, per esempio il rapporto tra turchi e curdi o l’emigrazione verso la Germania, di cui Fatih Akin divenne simbolo vivente. Anche in un film d’autore come il bellissimo Viaggio verso il sole della regista Yesim Ustaoglu (1999), d’altronde, emergeva con forza la questione curda senza mai chiamarla per nome.

Ceylan è diverso. Il suo è un piccolo film di 80 minuti in bianco e nero, come piccola è la città del titolo ispirata a Yenice, il centro di campagna della sua giovinezza. E soprattutto non è interessato a trattare grandi questioni sociali né a dare giudizi. Al contrario il film ha un incipit cinefilo, con i bambini che giocano nella neve come I ragazzi terribili di Cocteau e Melville: giovani che fanno scherzi, anche crudeli, al matto del villaggio e sghignazzano tra loro prima dei titoli di testa. Il racconto è diviso in quattro parti, una per ogni stagione, e segue il rapporto tra i membri di una famiglia a cui si aggiungono altri personaggi, focalizzando soprattutto su due bambini, un fratello e una sorella. Sullo sfondo, onnipresente, c’è la Storia della Turchia: lo attesta la statua di Ataturk all'inizio, il padre della patria, e più avanti i lunghi dialoghi sulle guerre di conquista condotte perfino da Alessandro Magno. La messinscena è nettamente divisa in due: nella prima parte troviamo i giovani alle prese con l’educazione, nelle aule di una scuola povera, in cui il maestro tenta di trasmettere le regole della società. Mentre un bambino parla del valore della solidarietà, mostrando di averlo capito (non è solo dare soldi, dice, ma aiutare in tanti modi), un altro soffia su una piuma che viene vertiginosamente seguita dall'obiettivo, nella prima ripresa sontuosa del cinema di Ceylan. Assistiamo quindi alle gesta del bambino nella natura, che insidia prima un asino bressoniano e poi una tartaruga: così il regista, in contropiede sulla rappresentazione rassicurante dell’infanzia, suggerisce il sospetto di crudeltà, dice che i bambini possono essere “cattivi”.

Kasaba di Nuri Bilge Ceylan

A un certo punto la situazione cambia radicalmente: il film si “racchiude” e diventa un racconto accanto al fuoco, in cui diverse figure dialogano e si confrontano tra loro. Un film parlato che lascia emergere gli anziani, i giovani e quelli di mezzo: siamo però lontani da qualsiasi teatralità, perché attraverso i bagliori sui volti, che cambiano nel corso delle lunghe riprese seguendo il variare della fiamma, Ceylan imprime alla macrosequenza un movimento puramente cinematografico. La neve e il fuoco sono essenziali in questo cinema: il paesaggio turco scolpito nel ghiaccio nella prima parte, il fuoco nella seconda, anticipano i due elementi primari che si svilupperanno nei titoli successivi, basti pensare al confronto innevato che risulta decisivo ne L'albero dei frutti selvatici. E riunirsi attorno al fuoco è naturalmente una testimonianza della tradizione orale turca, prassi secolare che serve a tramandare, e allo stesso tempo eterna metafora del gesto cinematografico di raccontare. Ceylan racconta gente che racconta: riflette sulla tradizione, la rimette in scena per storie interposte. Non a caso dedica il film alla madre e al padre, evidentemente rappresentanti di quella vecchia generazione dei “raccontanti”. I personaggi parlano dei conflitti che hanno portato alla Turchia attuale ricoprendoli di un alone mitico, ma anche di se stessi, della loro condizione. Già qui c’è una radicale assenza di giudizio, visto che il turco preferisce incidere la complessità di una questione, l’indecidibilità, la difficoltà di prendere posizione: questo compito spetta sempre allo spettatore.

La differenza di Ceylan, fin dall’inizio, sta nell'evocare un cinema alto e anche intellettuale, nel muoversi con ambizione tra Čechov e Dostoevskij. Il regista non si accontenta di indagare il suo paese, di “metterlo in quadro”, si intuisce che vuole qualcosa di più: costruire questioni etiche e morali, sondare la differenza tra generazioni, il divario tra giovani e anziani, l’incertezza dell'età di mezzo. Il destino dei bambini e cosa sarà di loro. E vuole farlo attraverso l'immagine. In un bianco e nero rischiarato da due luci: la neve e il fuoco. Ceylan è già uzak, lontano dal cinema intorno.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 28/01/2021
Turchia
Durata: 80 minuti

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