Synonymes

di Nadav Lapid

Nadav Lapid vince l’Orso d’oro della Berlinale 2019 con un film di rottura, estremo e metaforico, che spacca la superficie del banale e ci trascina su un terreno non previsto.

Synonymes di Nadav Lapid

Méchant. Obscène. Ignorant. Hideux. Vieux. Sordide. Grossier. Abominable. Fetide. Lamentable. Répugnant. Détestable. Abruti. Etriqué. Bas d’esprit. Sono le parole sul poster di Synonymes di Nadav Lapid, il film che ha vinto l’Orso d’oro alla Berlinale 2019: lettere che emergono in trasparenza sul volto del protagonista, un magnifico Tom Mercier. Sinonimi. Come identità è sinonimo di corpo: lo attesta il fulminante incipit, con il giovane Yoav arrivato a Parigi senza niente, che entra in una casa vuota, subisce il furto dei vestiti e resta nudo, raggomitolato in una vasca in attesa di congelare. A salvarlo sono Emile e Caroline (Quentin Dolmaire e Louise Chevilotte), una coppia di giovani che diventano il punto di riferimento per Yoav a Parigi, sia economico che sentimentale. Questi inaugurano una girandola di incontri che porta il ragazzo ad avvicinarsi a Caroline ma non meno ad Emile, con cui scorre sottotraccia un rapporto omosessuale latente che fa rima con la relazione esplicita con la donna. Ma probabilmente non è corretto parlare di “punto di riferimento”: se da una parte è vero che i due sono per Yoav un centro a cui sempre si ritorna, dall’altra si offrono piuttosto punto di non riferimento, non offrendo certezze, coinvolgendolo nel loro ambiguo rapporto, aiutando il migrante per avere qualcosa in cambio. Il suo corpo. All’inizio Emile e Caroline vestono Yoav ma sono abiti sformati, grotteschi, inadatti: lo vestono come vogliono loro. Accoglienza è sinonimo di dominazione. Indigenza è sinonimo di minorità.

Yoav è un giovane israeliano che ha deciso di abbandonare il suo Paese, in tutto e per tutto: approda a Parigi e respinge l’identità precedente, vuole cancellarla e diventare francese. Non sarà più israeliano, non parlerà più ebraico. Va in giro con un dizionario per imparare la lingua nel più breve tempo possibile, elenca sinonimi con risultati stranianti. Alla domanda su perché lasciare Israele, definisce lo Stato con il profluvio di sinonimi della locandina (méchant, obscène, ignorant...) e gli viene risposto che nessuna società può contenere quegli aggettivi tutti insieme. Yoav è infatti fuori luogo. Vuole imparare troppo presto, usa troppi sinonimi, si dice troppo francese. Non riesce a integrarsi, nella Parigi metonimia dell’Occidente, e inizia un vagare obbligato tra l’ambasciata israeliana, i test di integrazione, gli incontri con i conterranei che detesta. Complesso trovare lavoro, a volte perfino mangiare. Nel primo caso Yoav si infila nel gorgo della pornografia e, nella scena più spiazzante, viene costretto a ritirare fuori l’ebraico per mimare un orgasmo: è un momento urlato, innaturale, insostenibile che viene costruito attraverso una “depornizzazione del porno”, a ribadire con forza che la ricerca dell’identità passa ancora e sempre per il corpo. Anzi, forse l’identità è solo corpo. Nel caso del cibo Yoav si ritrova in una discoteca e per mangiare è costretto a ballare, il gesto di addentare il pane viene incluso dentro una danza: qui, davvero, risuona l’eco di altre crisi e altri poveri che “ballano per mangiare”, dai cavalli di Sydney Pollack ai disoccupati di Full Monty.

Ma Synonymes si inserisce direttamente nel cinema israeliano contemporaneo e il film che più ricorda è The Exchange di Eran Kolirin, in concorso a Venezia 2011. Lì il protagonista Oded torna da lavoro a un’ora insolita e non riconosce la sua stessa casa, è come se non l’avesse mai vista. Qui Yoav esce dalle proprie generalità ed entra in un limbo. Seppure in due parabole diverse, come non vedere l’attualità della questione identitaria in Israele? C’è un misto di attrazione e repulsione, la volontà e insieme la paura di trovarsi senza Stato, il rifiuto di una radice così storicamente forte perché lasciandola si intravede una “libertà”, la fine del peso di essere ebrei oggi per gettarsi però in una terra di nessuno. D’altronde Nadav Lapid continua un percorso cinematografico preciso e coerente che passa per Policeman del 2011, racconto che dal genere ricadeva lucidamente sul tessuto sociale.

Synonymes è film sfacciato, estremo, disgregato. Apertamente metaforico. Pieno di strappi e dissonanze stilistiche, volute da Lapid per trascinare l’occhio nell’oscillazione del protagonista, ora paradossale e kafkiana e ora drammatica e disperata. Film che riflette frontalmente sul linguaggio, ma allo stesso tempo si tiene lontano da un’impostazione solo teorica e si sporca le mani: vive della carne e sangue di Yoav (soprattutto carne) e sembra dire che il pensiero sull’identità e sulle migrazioni non è mai solo pensiero, perché irrompe sulle persone e ne segna i corpi. Ecco allora che il racconto iniziato col nudo si chiude con i colpi a una porta che non si apre, ovvero con un corpo che sbatte contro un muro. Il protagonista è finito in scacco: l’utopia dell’integrazione è fallita, la rinuncia all’identità ha portato a non trovarne un’altra. La protesta finale contro l’orchestra è rumorosa ma di fatto formale. Yoav pensa che Francia sia sinonimo di Israele, ma scopre che nulla è sinonimo di nulla. La sua fuga si rivela ad elastico, è costretto a tornare indietro. Va contro una porta chiusa.

C’è una profonda intelligenza nella scelta della giuria presieduta da Juliette Binoche di consegnare l’Orso d’oro a Synonymes, il migliore in competizione insieme a Grâce à Dieu di François Ozon e So Long, My Son di Wang Xiaoshuai: un film di rottura che di solito viene ignorato in sede di premiazione, perché per alcuni troppo ambizioso o provocatorio. Ma qui l’unica provocazione è l’invito a uscire dagli schemi più rassicuranti, come la difesa dell’identità ebraica (e se invece si volesse cancellare?), per seguire un discorso concettuale e visivo fuori dalle solite logiche che confermano le nostre convinzioni, tanto attese quanto previste. Anche per questo è un grande film contemporaneo.

Autore: Emanuele Di Nicola
Pubblicato il 18/02/2019
Israele, Francia
Regia: Nadav Lapid
Durata: 122 minuti

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