Hayat (Life)
Le contraddizioni socio-culturali del moderno Marocco in un road movie che eccede in retorica e leggerezza.

In arabo Hayat significa vita. Se al titolo di questo secondo lavoro del regista marocchino Mohammed Raouf Sebbahi, formatosi all’ISCA (Higher Institute of Cinema and Audiovisual) del Cairo dopo una laurea in Letteratura moderna, si associa il genere cui il film mansuetamente si ascrive – il road movie –, diventa facile capire come l’impianto narrativo e tematico sia qui interamente costruito attorno alla più classica delle metafore d’ogni tempo.
L’interminabile viaggio in autobus da Tangeri ad Agadir (meno chilometri di un Bari-Milano, ma la statale paventata da una delle passeggere dev’essere davvero un dramma rispetto all’autostrada) è, per i trenta marocchini che tornano a casa e per il personale della linea di trasporto, l’occasione per conoscersi, farsi la corte, diventare amici o amanti; ma anche per litigare, indignarsi, persino difendere i propri diritti di passeggeri ed esseri umani. Che sia contro le assurde imposizioni di un fanatico del Corano che non vuole guardare un programma televisivo ritenuto blasfemo, o per manifestare il proprio malumore verso l’incurante insolenza di chi impone agli altri le proprie sgradevoli esalazioni corporee.
Piccole questioni si mescolano a grandi questioni; come, appunto, nella vita. Dai calzini sporchi alle libertà intese come conquiste costituzionali, da impellenti e reiterati bisogni fisiologici alle violente intimazioni di un padre o un marito afflitti da ottusa mentalità retrograda e coercitiva, fino al diritto a essere amati anche in tarda età, al dramma dell’esilio, alle contraddizioni di un Paese in bilico tra sviluppo e arretratezza, tra auspicabile emancipazione e asfissiante ortodossia.
Questioni toccate, tutte, con estrema (troppa) leggerezza e retorica. A partire dal tema dei diritti che, tirato in ballo in maniera fragorosa già nella sequenza iniziale, viene incarnato da un professore (e qui il luogo comune è chiaro come il sole) che se ne farà paladino e postulante per tutta la durata del film (e del viaggio). In maniera goffa, posticcia, inutilmente roboante. Che in Marocco la situazione possa non essere idilliaca sul piano del rispetto della persona, se nel racconto filmico la polizia può permettersi di atterrare un vecchietto sceso dall’autobus col solo fine di svuotare la vescica iperattiva o se una donna qualunque con l’hijab può permettersi di maledire due ragazze che si abbracciano, è un fatto. Ed è giusto e degno di ammirazione che Sebbahi avverta la preoccupazione e la necessità di parlare (e ridere) di certi problemi che affliggono la sua nazione in modo così evidente. Ma vedere una faccenda delicata come la lotta per il riconoscimento delle tutele di base di una democrazia civile trattata con tanta retorica, piegata in maniera così grossolana al tessuto narrativo, fa nondimeno un certo effetto.
Di buono resta, a patto di sospendere l’incredulità nel momento in cui l’evento più eclatante del viaggio si consuma sotto gli occhi sbigottiti degli spettatori (anche questo investito di una funzione simbolica lapalissiana), l’intreccio relazionale tra i passeggeri, sufficiente ad intrattenere lo sguardo di chi siede in sala finché l’arrivo a destinazione non scioglie ogni congettura, portando a conclusione un film incapace di affrontare con la giusta considerazione le istanze socialmente critiche che pure intende incorporare.