Mes séances de lutte

Dalla parola alla carne, dalla teoria alla pratica: il film di Doillon insegue l’identità perduta nei territori oltraggiosi che precedono e superano la morale.

Dopo la morte di un padre che non l’aveva mai amata, una donna, fragile e irrequieta, torna ai paesaggi bucolici dell’infanzia. Orfana d’affetto, dilaniata da mancanze, assenze e torpori da cui non riesce più a destarsi, prova a spartire l’eredità con dei fratelli che sente lontani anni luce. Percepisce la morte come parte integrante della propria persona, affoga in una nevrosi distruttiva che la priva costantemente di ossigeno. Vagando tra le stanze asfittiche della memoria e tra i vasti, incontenibili paesaggi di campagna, la donna incontra una sua vecchia conoscenza: uno scrittore isolato, abbrutito dal tempo e della monotonia, sospeso in un mondo di possibilità mai sfruttate, di vite mai vissute. Due solitudini che si attraggono come calamite, instaurando un vero e proprio campo di forza: un terreno di lotta esclusivo e liberatorio che arriva là dove la parola precipita nell’impasse.

Mes séances de lutte si trova tutto nello slittamento dal piano verbale al piano fisico, nell’architettura coreografica, magnetica, di due corpi che si picchiano, si respingono e poi, senza alcuna programmazione, riescono perfino a liberarsi: uno nell’altro, due in uno solo.

Jacques Doillon, scavando impudicamente nei territori sotterranei della repulsione fisica, fa regredire i suoi protagonisti a un piano pre-verbale, dominato dall’istinto libidinoso e dalla pulsione irrefrenabile (proprio perché primordiale). Questa è la terapia che dà il titolo al film: sedute di lutto che diventano subito sedute di lotta. Il corpo maschile si fa feticcio, simulacro ideale: prima diviene il doppio di un padre tanto odiato, poi si trasforma nella personificazione lasciva di un intero genere.

Le sedute dei due protagonisti, fondate sullo scontro fisico, liberano infatti una forza eversiva (se non, addirittura, sacra) che non conosce limiti. Ciò che interessa lo sguardo è la collisione dei corpi, il gioco estremo della carne, la carica pulsionale del gesto che placa le ossessioni, guarisce la rabbia, dona la vita e sconfigge i fantasmi. Come in un saggio di Freud riletto in chiave batailliana, come se tutti i kammerspiel orgiastici ed eversivi fossero passati dai tanghi parigini al mondo segreto e insospettabile della campagna.

Le sedute di lotta non possono che trasformarsi in sedute d’amore: abbattuto il padre non rimane che l’uomo, non più la copia-strumento con cui esorcizzare i propri demoni, ma l’originale. L’erotismo, d’altronde, viene liberato quando qualsiasi morale, qualsiasi verbo, qualsiasi ipotesi razionale viene meno. Debellato il doppio non rimane che guardare in faccia l’altro e riconoscerlo, seppur nella foga, nella rabbia e - soprattutto - nel piacere.

Strisciando tra acqua e fango, lontani dai focolari domestici, i due protagonisti si accoppiano come bestie. Il film detona, esplode in una (anti)parabola catartica, dove crollano norme e morali, dove i fantasmi della storia, della cultura, della società cadono miseramente, rivelando tutta la loro inconsistente artificiosità.

I personaggi di contorno spariscono, restano solo quest’uomo e questa donna (che potrebbero essere i primi o gli ultimi): pura, concretissima libido, oggettivazione di un inconscio che squarcia ogni censura, ogni pudore, sacrificandolo all’altare della carne. Dalla terapia al rito, dalla parola a un amplesso che diviene il ricettacolo di un mondo dimenticato e respinto. Un mondo che può risorgere solo mediante simulazione, improvvisazione, recita, in una parola gioco.

Emergono naturalmente i conflitti insanabili tra parola e corpo, tra voce e istinto, tra teoria e pratica.

Anche dal punto di vista della messa in scena, Doillon esercita abilmente un meccanismo naturale, lasciando che il film sia, viva, s’insinui negli occhi dello spettatore, attratto e respinto dal sacro gioco dei corpi. Senza un copione, Doillon lascia regredire i propri personaggi, scopre la bestialità dei suoi modelli, gettandoli in una dimensione primitiva e sregolata.

Così come ogni seduta non può essere programmata, ogni ripresa dev’essere libera, deve lasciare che le cose avvengano: solo così il piacere – corollario incontrovertibile di ogni libertà – potrà portare alla riscoperta della propria persona. Un film che assomiglia a una cura, quella che parte da un desiderio omicida (uccidere il proprio padre ogni giorno) e che torna alla terra, al fango, al fondamento stesso della nostra identità.

Il corpo sfugge al controllo, abbatte qualsiasi ipotesi razionale. E’ puro impulso, violenza atavica, istinto naturale, ultimo baluardo in cui osceno e sacro sono la stessa cosa. Ma in questa riscoperta, Doillon “improvvisa” anche una personalissima interpretazione del cinema digitale. Nella consapevolezza che l’occhio numerico, oggi, sia sempre pronto a spiare qualsiasi nostra azione, la sua camera registra tutto, non esita, avanza, non può fermarsi, ma è sempre in movimento. Anche lei striscia nel fango, complice di una terapia che ci riguarda e di un’immagine che non può lasciarci andare.

Gli attori ripetono una scena dove il copione è l’aria, recitano situazioni già avvenute, mappano ogni ambiente improvvisando set filmici, simulano il loro passato, presentificano demoni che li perseguitano da tutta la vita E quando la battaglia scatena l’amplesso, sembra quasi che l’orgasmo sia divenuto l’ultimo di questi set improvvisati, l’ultimo luogo, il traguardo necessario per una vera e propria rinascita.

Svegliata dal torpore, eccitata da un sogno proibito, la donna è finalmente libera.

"Nell’erotismo" scriveva Bataille "IO mi perdo".

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 14/07/2015

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