Masterclass con il regista Park Chan Wook: "La mia visione ottimista del mondo di oggi"

L'autore coreano presenta il suo nuovo cortometraggio, A Rose Reborn, prodotto da Luca Guadagnino e molto vicino al mondo della moda e dell'hi-tech.

Non ha inciso troppo la masterclass con Park Chan-wook tenutasi al Festival del Film di Roma. Per chi c’era, è sicuramente balzato immediatamente all’occhio il fatto che tutto l’evento si è limitato alla proiezione di un corto dell’autore con annessa discussione dello stesso evento, mentre invece questo tipo di incontro, trattandosi per l’appunto di una sottospecie di lezione di cinema, dovrebbe come minimo coltivare la pretesa di gettare una più ampia panoramica sulla filmografia del regista presente. Così non è stato, purtroppo, in alcun modo. E non che è il piccolo film di Park, prodotto da Luca Guadagnino e girato in gran parte in Italia, fosse in compenso memorabile. A Rose Reborn è infatti un frammento di fantascienza hi-tech dalla confezione più vicina all’alta sartoria che al cinema. E’stata commissionata al regista coreano dalla società di Ermenegildo Zegna, che si occupa di abbigliamento ed eccelle nella sartoria maschile, portando dunque all’inevitabile fusione di due porzioni di immaginario molto differenti come lo sono il cinema e la moda ma soprattutto a un imbambolarsi dell’arte di Park dentro coordinate esclusivamente modaiole e haute couture. La mano del regista di Oldboy non è infatti per niente visibile e appare sepolta sotto metri e metri di una bellezza solo presunta, artificiale e digitalizzata, che il sottotesto ottimista e favolista del cortometraggio non riesce in alcun modo a nobilitare. Il protagonista, Stephen, ingegnere e imprenditore britannico, cambia più volte casacca durante il suo viaggio ma tali passaggi non sono adeguatamente sottolineati e anche la dimensione avventurosa non colpisce nel segno, lasciando totale campo libero all’incredulità basita e un po’ sconcertata di chi guarda dinanzi ad un risultato così plastificato ed impersonale.

Dopo la proiezione del suo ultimo lavoro, il dibattito è stato essenzialmente una parafrasi di A Rose Reborn, o forse, più maliziosamente, una sua legittimazione su un territorio che suonasse necessariamente alto. “All’inizio – dice Park – avevo pensato a qualcosa che avesse a che fare con rapimenti e storie più crude, ma le persone che avevo intorno per questo progetto mi hanno detto che non era affatto possibile e allora ho cambiato completamente idea. Il mondo della moda per me era completamente alieno e molto lontano dalla mia sensibilità, ma una volta conosciutolo mi sono sentito abbastanza vicino a quell’universo. Eravamo d’accordo sulla volontà di rappresentare una nuova era cui corrispondesse una nuova élite, un nuova forma con un nuovo aspetto corrispondente, immaginando così un uomo bello, Stephen, che fosse completamente libero ma anche un po’ prigioniero del mondo in cui si trova. Lu invece, l’altro personaggio, vuole usare il suo denaro per rendere il mondo un posto migliore, ed è così che decidono di collaborare a questo scopo. Se vogliamo necessariamente paragonare questo film ad altri miei lavori in realtà questo film è estremamente positivo e ottimista, parla del bello che c’è dentro ognuno di noi. Sì, è chiaramente un film molto legato al concetto di bello, era stato realizzato in collaborazione con una fashion house perciò doveva necessariamente contenere al suo interno una relazione con l’estetica e io ho voluto esprimere ciò che è la bellezza per me, l’importanza della bellezza nella vita”.

“Visivamente il cortometraggio – continua Park - ha dei momenti che sono concentrati sulla circolarità, ci interessava lavorare sul formato tondeggiante dell’uovo, non a caso il film comincia a Londra con un famoso edificio londinese di nuova costruzione e che presenta quel tipo di forma. Ho voluto sottolineare l’importanza di questa rotondità, ho visto di avere tra le mani degli abiti dalle combinazioni ardite e ho pensato a una storia con degli uomini che si cambiano a vicenda i vestiti che indossano” . In chiusura, nel deserto dell’assenza di un focus monografico e di un allargamento del discorso (a dir poco assurdo che non si sia portato avanti), per non parlare della fatidica domanda “Girerebbe un intero film in Italia?”, è stato chiesto a Park Chan-wook cosa ne pensasse in merito al binomio sempre più forte, a livello produttivo, tra Usa e Corea, testimoniato ad esempio da film come Snowpiercer, The Last Stand e dal suo stesso Stoker. Il regista ha risposto piuttosto inutilmente col proverbiale colpo al cerchio e alla botte, chiudendo dunque il sipario in modo perfettamente adeguato su un evento non certo memorabile: “Io personalmente ho imparato molto da quell’esperienza, a volte mi sono trovato a pensare che alcune caratteristiche del sistema americano fossero migliori e altre volte che erano preferibili invece le corrispondenti prassi del modello coreano. Per esempio in Corea il planning di ciò che dovrà esserci sul set sottrae troppo tempo, mentre in America è la post-produzione a durare davvero troppo” .

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 19/10/2014

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