Leviathan

La dimostrazione di come la forza dello sguardo sia l’elemento determinante di qualunque cosa voglia definirsi cinema.

Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe” (Giobbe 41)

Le recenti vittorie di Sacro GRA e Tir rispettivamente ai festival del cinema di Venezia e di Roma hanno riacceso in Italia il dibattito sul cinema documentario e sulla sua presunta differenza con il cinema cosiddetto di finzione. Un’occasione di confronto probabilmente sprecata dato che ci si è in molti casi concentrati sull’anomalia (in quanto documentari) di due simili vittorie e non sullo specifico valore dei film di Rosi e di Fasulo, sul loro essere assoluta parte organica di quell’arte in continua evoluzione che chiamiamo cinema. Quello che appare innegabile è che spesso l’interesse critico davanti ad alcuni film pare dominato dall’esclusivo interesse per la matrice documentaristica, per la capacità di raccontare il reale come se si trattasse di un’inchiesta televisiva o, nel migliore dei casi, di una fonte storica in medias res. Un fraintendimento critico in grado di gettare una luce inquietante sullo stato dell’analisi filmica odierna incapace di guardare con sguardo omogeneo a tutto ciò che è il complesso panorama audiovisivo contemporaneo. Il documentario non è una forma parallela di cinema, né una storia piccola e misteriosa che scorre accanto a quella ufficiale. Il documentario è un genere cinematografico, la cui specificità è data, forse, dallo stretto rapporto che intrattiene con i materiali del reale. Quelli che per un western possono essere i codici narrativi classici (e poi il loro superamento), l’attenzione per il paesaggio, l’esaltazione del mito della frontiera (e, in seguito, la sua demistificazione), per il documentario sono i frammenti di verità catturati dalla macchina da presa, la capacità di restituire un’idea su una realtà, sia essa umana, culturale, animale, architettonica. Affermazione, che appare evidente, si può del resto tranquillamente adattare a tantissimo cinema di finzione. E’ la sopravvivenza della vecchia querelle Lumière-Méliès, per anni considerati i padri del cinema documentario e fantastico e che solo in tempi recentemente si sono visti restituita tutta l’ambiguità e la forza della loro non appartenenza a nessuna categoria o genere (ogni inquadratura dei Lumière denota una grande attenzione alla composizione dell’inquadratura e al lavoro di messa in scena artificiali, mentre i lavori di Méliès possono essere tranquillamente interpretati come documentari sui suoi spettacoli e trucchi). L’insufficiente definizione di cosa sia un documentario appare evidente se si volesse ritornare al cinema di Roberto Rossellini o alle teorizzazioni di Cesare Zavattini: come definire il loro lavoro? Documentario? Restituzione del reale? Finzione? Simili categorie, oggi, non contano nulla: ciò che è importante è la produttività di un certo discorso, la capacità che ha un film di significare, di spalancare dubbi e ambiguità, di porre domande irrisolte.

Leviathan diretto dall’antropologo Lucien Castaing-Taylor assieme alla collega Véréna Paravel è uno di quei lavori capaci di mostrare con grande forza quanto le rigide categorie sopraccitate non siano più in grado di illuminare chiaramente il senso di un film. I due registi sono saliti a bordo di un peschereccio mercantile al largo delle coste del Massachussets, gli stessi luoghi da cui Herman Melville fece partire il viaggio di Ismaele in Moby Dick (evocato dalla celebre definizione del leviatano da parte di Giobbe, qui posta in testa al film). Quello che un’accademica definizione di documentario poteva far credere si trattasse di un lavoro d’inchiesta sulla vita dei marinai e sui rituali della pesca nelle acque dell’Atlantico, è subito smentito dalle prime immagini: un buio totale, occasionalmente squarciato da lampi di colore, superfici sporche, bagnate, il tutto avvolto da un sonoro cupo e ossessivo. Lentamente si inizia a cogliere il materiale di partenza, la ripresa di una lunga e complessa pesca a bordo di una nave persa nel buio della notte.

Nel corso del film lo stile adottato da Castaing-Taylor e da Paravel non subirà modifica: Leviathan è un film totalmente privo di dialoghi, non ci sono interviste, voci fuori campo volte a illustrare una tesi. Solo suoni e immagini che spesso virano verso l’astrazione assoluta. Sono assolutamente affascinanti le modalità con cui la macchina da presa dei due registi riesce a reinventare in chiave sperimentale le porzioni di reale che hanno deciso di porre davanti alla loro macchina da presa: un lavoro che riesce a trasformare anche il braccio di un marinaio in un qualcosa di misterioso, alieno e inafferrabile.

Leviathan è la dimostrazione di come la forza dello sguardo sia l’elemento determinante di qualunque cosa voglia definirsi cinema, di come la didattica che in tanti legano ingenuamente al cinema documentario possa essere totalmente stravolta dalla forza teorica di un occhio registico consapevole. Esemplari sono due momenti: nel primo un piano sequenza fisso segue il lento addormentarsi di un marinaio davanti al televisore; nel secondo un pescatore getta per pochi secondi il suo sguardo verso la macchina da presa, uno sguardo che l’operatore si impegna subito a eliminare dall’inquadratura ma che pure i registi hanno deciso di mantenere in sede di montaggio. Sono due frammenti quasi ironici nel loro volere fare i conti con due tòpoi della documentaristica, la ripresa immobile pronta a catturare la verità (metodo usato spesso da un cineasta come Frederick Wiseman) e il sempre problematico e proibito sguardo in camera, due schegge di cinema che hanno entrambe poco a che fare con il resto del film, utilizzate quasi a voler riaffermare la grande non appartenenza (se non a se stesso) di Leviathan. L’interesse del film non si esaurisce però in un esercizio puramente formale, anzi proprio grazie al suo andamento onirico e ossessivo Leviathan riesce a tessere una relazione di assoluta originalità tra lo spettatore e la “realtà” del materiale di partenza, una relazione che si potrebbe definire puramente evocativa. Il lavoro sulla nave, le pesche notturne, lo svuotamento delle reti appaiono qui esaltate nelle loro qualità fisiche e fenomeniche, esperienza di cui lo spettatore si sente assolutamente parte integrante. Grazie anche a un utilizzo davvero creativo della macchina da presa (a volte posta in una tale prossimità con l’oggetto filmato da lasciare sbalorditi, si veda la ripresa in mezzo alla pozza d’acqua piena di pesci agonizzanti) l’occhio di chi guarda arriva a coincidere con l’occhio di chi vive quotidianamente la stanchezza, la routine, la fatica di un simile lavoro: un lavoro che Castaing-Taylor e Paravel assimilano a un’esperienza autenticamente ipnotica.

Privo di un inizio, di uno svolgimento o di una fine, Leviathan dura 87 minuti ma potrebbe durarne molti di più, proseguire l’esperienza potenzialmente all’infinito, perdersi nella propria durata. L’importanza di Leviathan, oltre che nel suo assoluto valore formale e nell’intelligenza con la quale i registi hanno approcciato questa data porzione di realtà, risiede nella capacità che ha il film di scardinare praticamente ogni categoria o definizione di comodo con la quale in tanti si ostinano a riflettere sul cinema. Un cinema, quello contemporaneo, che sembra tenuto insieme da una sola cosa: la sconfinata libertà delle sue forme, l’ibridazione totale dei canali produttivi e distribuitivi, dei linguaggi e dei supporti. Chi vuole potrà definire Leviathan un documentario sperimentale: e nulla avrà detto della sua forza e della sua straordinaria intelligenza cinematografica.

Autore: Germano Boldorini
Pubblicato il 09/02/2015

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