Les jours où je n’existe pas

Io non esisto abbastanza, quasi non esisto”. Ogni ventiquattro ore, a mezzanotte, Antoine (Antoine Chappey) torna a esistere o smette di esistere: a giorni alterni appare, scompare, riappare, ricompare. Letteralmente. Come un fantasma. Non può vivere il giorno prima e quello dopo, c’è solo un presente ritornante come attesa, già tempo inabissato, chiuso, impossibile, fatto di un appartamento silenzioso, spoglio, e di camminate solitarie lontane dal mondo degli altri. Poi incontra Clémentine (Clémentine Baert), si innamorano, vanno a vivere insieme nell’abitazione di lui, inizialmente la donna accetta la “condizione” del compagno, ma pian piano si basterà da sola, lei che il tempo ce l’ha, può vivere. Due anni d’amore per Clémentine sono solo un anno per lui. Gradualmente, è lei a sparire dalla vita a metà di Antoine.

Les jours où je n’existe pas di Jean-Charles Fitoussi, per certi versi, assomiglia molto al suo protagonista, quasi volesse, come lui, fissare gli istanti, cercare di trattenerli, custodirli, in un andatura morbida ed estesa prima dell’oblio momentaneo che verrà, come se quello della macchina da presa fosse sempre il tentativo (l’ultimo) di salvare un’immagine, una visione che non ci sarà, il tentativo di stabili(zza)re uno sguardo dentro l’inquadratura di uno spazio, di un corpo, di un oggetto. Come un film condannato al perenne approssimarsi di uno schermo nero. Ma in Les Jours où je n’existe pas questa sovrapposizione è solo una parte, una delimitazione di cui resta in fondo la pregevole postura, il passaggio, la mimesi interrotta, mentre la fisionomia si fa più complessa, sfumata, sfuggente.

Perché Antoine e Clémentine sono puri personaggi, e la distanza del regista ne disegna le traiettorie, le direzioni incompatibili delle figure. Perché Les jours où je n’existe pas è uno spazio indefinito, è l’occhio del cinema che (si) guarda dentro i suoi confini apocrifi, transitori, apparenti, di un inizio e di una fine, di un congelamento illusorio. Tenta di trovare quello che non c’è, o forse lo suggerisce appena. Per andare oltre il racconto, il suo protagonista. Proprio in questa mancanza, nella percezione mutilata, il film esiste come insieme in divenire, addensarsi lento di segni nel suo segreto movimento interno; si fa messa in forma dell’immagine contemporanea ,diventa traccia sensibile del presente, cinema, vita, sguardo già altrove, nelle faglie, fino al fuori campo. Perché, scrive Roberto De Gaetano, «la contemporaneità è in primo luogo un sentimento. Sentimento di qualcosa che ci sta vicino ma non del tutto, la cui vicinanza è inscindibile da un filtro che l’allontana. Qualcosa che ci dice che ciò che arriva è in quel momento e non era prima; esprime quel momento […]. Il contemporaneo è ciò che sentiamo come emergenza, quindi ciò che diviene tale, che non è percepito fin dall’inizio come adiacente»[1]. E prima di tutto, nella sua apparente impassibilità che sa accogliere però l’ironia, il buffo, la fantasia dell’assurdo, Les jours où je n’existe pas è un sentimento. Uguale e diverso a quello di Antoine. Sentimento del tempo, delle cose, del mondo, del corpo, come a sfiorare la pelle (delle immagini). Sentimento (sedimento inconcluso) dell’immagine o oltre i bordi. Sempre immagine mancante. Come quella incompleta fra Antoine e Clémentine, perché «se il puramente attuale è senza-intervallo […] un sentimento della contemporaneità lo proviamo in un certo destino irrisolto dell’incontro d’amore»[2].

Come l’immagine di Antoine, solo, quando Clémentine ormai è andata via, che osserva una coppia al bar e ascolta le parole rivolte dall’uomo alla donna che non parla, lo fissa soltanto: “Tu mi comprendi, no? La gente come me appartiene a un mondo a parte. Una metà intera della mia vita ti sfugge, non la conoscerai mai. Perché quella metà non ha niente in comune con la tua vita”. Come se a tornare davvero possa essere sempre e solo un’immagine mancante.

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[1] Roberto De Gaetano, L’immagine contemporanea. Cinema e mondo presente, Marsilio, Venezia 2010, p. 7.

[2] Ivi.

Autore: Leonardo Gregorio
Pubblicato il 10/02/2015

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