The Leftovers

Anziché sovrabbondare di trame e personaggi la serie di Lindelof e Perrotta si esercita nella pratica della sottrazione regalandoci uno dei momenti più intimi e personali della televisione recente.

Il filosofo francese Alain Badiou dedica gran parte della sua riflessione estetica all’opera di Samuel Beckett: in posizione polemica rispetto alle letture che vedevano nei testi dello scrittore irlandese l’espressione dell’informe, dell’assurdo o di una condizione umana fatta di miseria e disperazione, la sua lettura fa di questi testi un vero e proprio spazio di sperimentazione narrativa sugli aspetti essenziali (generici) dell’essere umano. Secondo una procedura che ricalca quella sperimentale della scienza moderna, la narrazione procede per sottrazione: spoglia i propri personaggi di tutti gli ornamenti circostanziati e dei predicati inessenziali per metterli alla prova su un piano più profondo. Lo stesso ordine di considerazioni potrebbe aiutare, mutatis mutandis, a leggere anche la serie di Damon Lindelof e Tom Perrotta e questa terza (e ultima) stagione in particolare. The Leftovers è una serie che ci parla della sottrazione e lo fa per mezzo della sottrazione. Questo particolare tipo di sci-fi parte da un’ipotesi (“Cosa succederebbe se scomparisse, d’improvviso e senza motivo apparente, il 2% della popolazione mondiale?”, “Come reagirebbe il restante 98%, i leftovers appunto, a questa sottrazione?”) e dalla costruzione di un universo narrativo in cui si tenta di sviluppare tale idea e di rispondere agli interrogativi che questa porta si dietro.

L’impostazione più marcatamente monografica della terza stagione fa sì che i personaggi vengano, uno ad uno ed episodio dopo episodio, messi alla prova, privati lungo il loro percorso di ogni predicato inessenziale fino ad essere lasciati soli con loro stessi alle prese con i loro interrogativi fondamentali. In costante riferimento all’evento scatenante del quattordici ottobre, le creature di Lindelof vengono estratte ancora una volta dal loro contesto, allontanate dai loro cari, dalla loro quotidianità, dalle loro certezze, e poste di fronte agli interrogativi più radicali. Uno dei momenti più riusciti di questo processo è sicuramente l’episodio dedicato a Matt, It’s a Matt, Matt, Matt, Matt World, dove questo modo di procedere è più palpabile che in altri: privato della moglie, della fiducia dei cari, dell’integrità fisica e morale, della dignità della fede e, in ultimo, anche della prospettiva di vita («I’m dying…»), che cosa rimane? Si ha l’impressione di assistere ad una messa alla prova attraverso domande del tipo “in che cosa credi?”, “fino a che punto sei disposto a spingerti per quello in cui credi?”.

Ciò che conta in questa sede non è tanto come si sposteranno sul piano della trama orizzontale i personaggi quanto piuttosto come risponderanno praticamente (nel senso di eticamente) alle situazioni che la sceneggiatura presenta loro. Da questo punto di vista, il capitolo conclusivo della serie, quindi, non ne espande in larghezza l’universo narrativo ma piuttosto in profondità: la sceneggiatura non aggiunge carne al fuoco ma si concentra ancora una volta sulle premesse poste già dalla prima annata, prende tempo al posto di accelerare, scava a fondo nei personaggi e nelle situazioni costruiti nell’arco delle due stagioni precedenti. Tuttavia, se non avanza sul piano della trama orizzontale, lo fa ampiamente nel tratteggiare i contorni psicologici ed esistenziali dei suoi protagonisti.

La modalità narrativa della prova a partire dalla sottrazione viene, inoltre, abilmente associata a tipi di discorso altri rispetto al narrativo, quali lo psicologico, il religioso o lo scientifico. Gran parte della narrazione sviluppa questo tipo di metafore: se Matt (in senso più classico) o Kevin Senior (in senso più superstizioso/mitologico) incarnano il classico percorso della prova religiosa, e Nora aiuta a riflettere sulle dinamiche della spiegazione scientifica, è con il personaggio di Kevin che questo processo assume i tratti più simbolici tipici del discorso psicologico: la scelta dell’identità, il daimon (Patti Levin), la missione, l’uccisione del proprio doppio, sono tutte azioni che Kevin si trova a dover compiere nello spazio altro e grigio della propria coscienza. Ed è proprio quest’aspetto a fare della serie una delle narrazioni più intime ed oneste della televisione recente.

In questa terza stagione, in modo forse più marcato rispetto alle due precedenti, la prova è rappresentata sempre dal punto di vista del soggetto, come una sperimentazione del sé narrata in prima persona. Che ciò a cui abbiamo assistito sia veramente accaduto o meno (le morti di Kevin, il viaggio di Nora nel “wherever they went”, …) non è chiaro ma nemmeno essenziale: quel che conta e che rimane è il valore simbolico/virtuale dell’esperienza che influisce in ogni caso sulla prospettiva del soggetto sulla realtà. Lo splendido epilogo chiude giustamente il racconto senza “esplicitarlo”, senza togliervi la necessaria stratificazione simbolica. La riflessione sull’esperimento mantiene, in questo senso, il suo interesse: dalla sottrazione e dalla prova, vissute intimamente nelle loro soggettività, i personaggi escono mutati nella loro visione del mondo, rispondono agli interrogativi sugli aspetti essenziali dell’essere umano e accettano finalmente il mondo in cui vivono.

The Leftovers ripropone, sostanzialmente, alcuni dei grandi temi che già erano stati indagati da Lost – quali la prova, la redenzione, la salvezza, e tutto un ordine di questioni marcatamente esistenziali – ma li affronta, stavolta, attraverso una modalità essenzialmente opposta rispetto all’accumulo e alla sovrabbondanza di personaggi, scenari, intrecci e rispetto alla rapidità del discorso tenuto in precedenza. La virata più intimista, minimale e meno frettolosa che ha preso quest’altra opera di Lindelof si interpreta volentieri come un segno di incessante sperimentazione estetica e maturità di scrittura.

Autore: Irene De Togni
Pubblicato il 12/07/2017

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