L'amore bugiardo - Gone Girl

Miglior film di Fincher da anni a questa parte, Gone Girl è un magistrale thriller sull'atto del racconto e sulla crisi dell'identità nell'era ipermediale

Ogni storia d’amore è una storia di fantasmi, è stato scritto. Ma a volte anche i fantasmi mentono. Le tracce che lasciano quando il corpo viene meno raccontano una loro verità, a volte solamente tangenziale rispetto a ciò che è veramente accaduto. Ogni storia d’amore allora è una storia che raccoglie altre storie, racconti che convivono assieme giorno dopo giorno, proiezioni, finzioni, bugie. Forse ci si racconta la stessa storia, forse solo versioni divergenti, nelle cui dissonanze si muore ogni giorno, si diventa, ritornando, fantasmi. Ogni storia d’amore è allora una storia di doppi, o magari tripli e ancora di più, perché in una società massmediatica ogni punto di vista genera un racconto personale. E quando succede qualcosa di brutto, qualcosa da raccontare, tutte queste storie si scontrano tra loro, sopraffacendosi l’una sull’altra fino a che non ne resterà una sola. Quella ufficiale. Ma sarà anche quella vera?

L’amore bugiardo - Gone Girl è la storia del matrimonio tra Nick Dunne e Amy, è la storia di Nick, è la storia di Amy, è la storia di una sparizione che forse è un omicidio che forse è qualcos’altro. Gone Girl è il miglior film di David Fincher dai tempi di Zodiac, il punto più alto di quella svolta stilistica iniziata con The Social Network e forse vetta della sua carriera. Ma al di fuori di sterili classifiche Gone Girl è un film magistrale sull’atto del racconto, sul proiettare all’esterno la storia anzitutto di sé stessi, e su come tale capacità sia prima di tutto questione di controllo. Controlla il reale chi sa gestire meglio la storia che è in corso, plasma la verità chi è in grado di offrire il racconto più convincente. La crisi di Gone Girl è allora uno scontro tra narratori, tutti i protagonisti nel corso del film fanno a gara per esprimersi sui fatti e affermare così la verità. Perché ogni azione può esistere o meno in base alla voce che la descrive, ogni persona può avere il suo doppio in base a chi la racconta. E poiché raccontare è appunto proiezione, Gone Girl ci ricorda come il modo migliore per controllare qualcuno sia imporgli una determinata narrazione di sé stesso. Ecco perché quando uno dei personaggi femminili del film si libera dal suo controllo può finalmente reinventare la propria identità, lasciandosi andare ai vizi e alle noncuranze che il punto di vista maschile normalmente non tollera. Stesso motivo per cui il personaggio di Neil Patrick Harris risulta ad un certo momento tanto pericoloso, perché il suo racconto (e quindi controllo) rischia di essere più potente di quello della sua ospite.

Non saremo mai come loro, non diventeremo mai quel tipo di coppia”, si dicono Amy e Nick, ma negli anni il sogno del loro matrimonio scivola via, loro stessi iniziano a sparire, sostituiti da versioni fantasmatiche e duplici di loro stessi. Il dubbio centrale attorno a cui ruota il film di Fincher è la possibilità o meno di avere una relazione autentica nonostante questo moltiplicarsi di punti di vista, come si possa comunque essere sinceri e conoscere nel profondo qualcun altro quando la sua identità rischia di rimanere ingabbiata nella sintesi dei racconti che la riguardano. L’atto scatenante di Gone Girl è allora un grido di rivolta a tale interconnessione narratologica, il tentativo di riappropriarsi del racconto della propria vita.

Thriller magistrale sull’identità contemporanea capace anche di dialogare con la commedia con improvvise incursioni di black humour, Gone Girl appare spesso come un film profondamente hitchcockiano, molto simile a quanto avrebbe diretto Hitchcock stesso nelle medesime condizioni. Ma oltre questo è un film che conferma la tenuta profondamente autoriale di Fincher. Possiamo ancora non riconoscere al primo sguardo un interno di un suo film? La gestione delle luci, l’atmosfera sospesa ma di pura tensione, il rapporto angoscioso che i protagonisti hanno con lo spazio che li circonda. In Gone Girl i personaggi di Ben Affleck e Rosamund Pike (entrambi scelte perfette, spaesato e goffo lui quanto lei è inconoscibile e seducente) sono sempre fuori posto, spiazzati e a disagio anche quando cercano di mantenere posizioni di controllo. Dopo aver contribuito a definire l’estetica degli anni Novanta con Seven e in parte Fight Club, Fincher ha intrapreso da The Social Network un percorso preciso e lucidissimo di ricerca formale, un’esplorazione estetica atta a sintetizzare la tradizione (oggi) neoclassica con il peso e la presenza fisica della macchina da presa più tipica del cinema moderno e postmoderno. Di tale discorso Gone Girl rappresenta senza dubbio l’apice estetico, per la capacità delle sue inquadrature (alcune davvero potentissime) di svelare uno sguardo in perfetto equilibrio tra presenza e assenza. Fincher infatti non è cristallino e pulito come possono esserlo oggi Clint Eastwood o lo Steven Spielberg di Lincoln, è impossibile ripensare ai suoi film senza passare per una filigrana di angosciante dissonanza, il cuore di un’immagine spesso glaciale capace di disturbare molto tempo dopo la visione. Gone Girl è tutto questo, e molto altro.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 20/10/2014

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