La linea verticale

Rai Fiction e Wildside vincono la propria scommessa produttiva con la nuova serie tv di Mattia Torre, un dramedy divertente ed emozionante sulla malattia e la degenza ospedaliera.

Per Mattia Torre non c’è nulla che possa rivelare ciò che siamo, e che potremmo diventare, come la commedia. Prima ancora che una ben definita forma di drammaturgia, una pratica espressiva con cui poter raccontare potenzialmente ogni cosa, la commedia è per lui un modo di guardare alla vita e di affrontarla, di stare al mondo. Precede, come dire, il racconto, inizia a plasmarlo sin dal momento in cui, ancora in germe, lo si cerca tra le maglie della realtà o, come spesso avviene, quando è lui a trovare noi.

La storia del cancro al rene che il quarantenne Luigi (Valerio Mastandrea, con cui Torre ha già collaborato in tv, con quel piccolo gioiellino di sit-com che è Buttafuori, ma anche a teatro) si ritrova diagnosticato nei primi minuti di La linea verticale, l’ultima serie tv scritta e diretta dall’autore e regista (insieme a Luca Vendruscolo e Giacomo Ciarrapico) di Boris, prende non a caso le mosse da una vicenda autobiografica. Una tragedia piombata all’improvviso sulle spalle di Torre, catapultato in poco tempo in un reparto di oncologia per malati urologici. È proprio in questo microcosmo – una della possibili riduzioni in scala del macrocosmo, crogiolo di metafore e similitudini, un Bel Paese in miniatura – che, osservando con attenzione i particolari, nella tragica cornice della malattia si manifesta la compresenza di un inevitabile umore comico, una caligine briosa e piena di vitalità che, come rugiada rivivificante, si deposita negli interstizi dei dolori e delle disgrazie più nere e riporta, anche solo per un attimo, il sorriso.

Qui i cliché si disfano: il luminare che potrebbe boriarsi con piglio baronale si mostra invece solare e disponibile; gli ammalati, solidali e partecipi della comune sventura, perdono gran parte delle connotazioni socio-economiche e annesse disuguaglianze del mondo esterno, e cominciano pian piano a palesare meravigliose singolarità che sfociano nell’eccentricità, nelle ossessioni, in piccole fragilità, rimpianti, desideri e fantasie che ne fanno un’unica, vibrante umanità; la verità scientifica si stempera nell’aleatorietà del sapere medico, stralunata dall’interpretazione, dalle diagnosi e dai convincimenti dei singoli professionisti, in un valzer dei consulti che non può nascondere la sua intima, connaturata, comicità, né la familiarità del suo agire nell’esperienza di molti spettatori.

La commedia, dunque, si mescola – o meglio, è già amalgamata – alla tragedia, in maniera del tutto naturale. Torre sa che questa inestricabile comunione di spiriti è l’essenza del nostro stare al mondo, che tutto è questione di sguardi, di bilanciamento d’opposti, di dosatura, e ne fa l’impianto stesso di questa formidabile serie televisiva, definita non a caso da molti addetti ai lavori come un perfetto esempio di dramedy, crasi anglofona, appunto, tra drama e comedy. Alla natura autobiografica, sofferta e sentita, del soggetto, confluito, prima che nell’adattamento televisivo, tra le pagine dell’omonimo romanzo edito da Baldini&Castoldi, Mattia Torre aggiunge l’inconfondibile trattamento à la Boris, con il gusto per il nonsense, l’umorismo paradossale e il piacere del grottesco, la caratterizzazione dei personaggi, l’inclinazione alla battuta-tormentone, molte delle quali, in romanesco, in pieno stile René Ferretti (il refrain dell’infermiera, «te pisto», in primis).

Di Boris tornano anche interpreti chiave, come Ninni Bruschetta, Antonio Catania, Paolo Calabresi e Giorgio Tirabassi, attori di straordinaria vis comica, che oltre a recitare in modo convincente hanno nuovamente condiviso fino in fondo gli intenti del racconto, consentendone la piena riuscita. É alla loro fisionomia, gestualità e vocalità, oltre chiaramente alla performance eccellente di Mastandrea e al talento in fase di scrittura di Torre, che si deve buona parte della irresistibile simpatia di cui è intrisa La linea verticale.

Una produzione seriale con cui la Rai, che figura tra i produttori accanto a Wildside, ha inteso perseguire autorialità e innovazione, puntando su due diversi canali di distribuzione: da un lato la piattaforma di streaming RaiPlay, con la possibilità di godere delle brevi puntate (dai 20 ai 25 minuti) attraverso un binge watching stile Netflix o Amazon Prime Video; dall’altro la prima serata su Rai 3. Una scelta che, stando agli ottimi ascolti, ha riscosso un meritato successo in termini di share, e consegna agli spettatori più smaliziati qualche speranza in più di vedere show che risaltino per originalità e coraggio nella solita solfa generalista della tv di Stato.

Autore: Domenico Saracino
Pubblicato il 14/02/2018

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