La fille de nulle part

La terapia di Brisseau (ci) coinvolge tutti e finisce per guardare l’illusione per eccellenza: il cinema stesso e la sua grande narrazione che non può fare a meno che reincarnarsi.

O Mon Dieu, ouvre-moi les Portes de la Nuit

(Victor Hugo)

L’oggetto delle nostre credenze, delle nostre opinioni, delle nostre affezioni, della nostra sofferenza e della nostra felicità, è basato sul nulla. Un mondo di parole, struggenti ma mai feconde, parole che vorrebbero, ma non possono, resuscitare i morti; parole che vorrebbero, ma non possono, risvegliarci da quei sogni secolari che hanno finito per annebbiare – o forse arricchire? – la nostra vista. Lui, professore di matematica ormai in pensione, vedovo da tanti anni, dimentico del mondo ma rinchiuso in un appartamento dove ogni elemento rimanda sempre a un’alterità impossibile da decifrare. Lei, ragazza che viene dal nulla, che non ha casa e non ha più famiglia, picchiata, umiliata e sola: il suo sguardo nasconde un mistero indecifrabile, un segreto che gli occhi custodiranno con assoluta e sconosciuta mestizia.

Non appena si cerca di identificare, catalogare il senso delle cose, queste vanno in un’altra direzione, raccontando il cuore spettrale di ogni esistenza. Lenire il dolore scoprendo lo sguardo dell’altro, forse il film parla proprio di questo. Perché il protagonista è un uomo che guarda e si riconosce negli occhi altrui, sedotto da quell’antico mistero che ne fa un equilibrista sul gorgo del nulla. Ma è un nulla, questo, non più così spaventoso. L’opera di Brisseau si rivela troppo ricca, troppo variegata, troppo extravisibile per essere completamente afferrata: da qui quel senso d’indefinitezza che sembra accompagnare ogni immagine de La fille de nulle part. Non è solo la confessione di un tenero incontro, ma è un film che parla d’altro: potrebbe essere la storia di un amore che supera il tempo, attraverso nuovi corpi e nuove, progressive reincarnazioni, con la forza di un grido silenzioso che irradia ogni ambiente come fosse il set di un film già visto, di una storia già vissuta, di una donna già amata. Se da una parte Brisseau contribuisce a creare un’immagine realistica – intesa come avversa a qualsiasi tipo di artificio - dall’altra squarcia la superficie vana delle cose – e degli oggetti e del microcosmo culturale dell’appartamento – per scrivere una personale, metafisica storia del tempo e dello sguardo: uno sguardo che non deve vedere per credere, ma deve credere per vedere.

Che tutta la cultura del mondo, che ogni singola esistenza, che ogni piccolo incontro, possano tornare al nulla da cui sono venuti. Che ogni enorme, gargantuesco monumento del ricordo, ogni struttura verticale e perfino ogni speranza possano rivelare, in fondo, lo stato delle cose: questa la paura – o l’aspirazione – più grande. Sotto le note del quarto movimento della Sinfonia n.5 di Mahler, unico motivo musicale del film, il protagonista (Brisseau stesso) scrive un libro cercando vanamente di razionalizzare il nulla. L’immagine di Brisseau si rivela allora come il trucco di un prestigiatore: nella sua apparente piattezza scopre un retrofondo illuminato in grado di squarciare il quotidiano. Si tratta della stessa voragine, della stessa vertigo che si può scorgere negli occhi della ragazza. Ecco allora che il film slitta dal piano della ricerca al piano della perdita: ruolo dello spettatore è quello di allontanarsi dal centro, di smarrirsi tra parole e immagini che vorrebbero contenere tutto ma rivelano sempre e comunque la loro inadempienza, la loro impotenza, la loro stessa fragilità. Quella del regista diviene un’immagine trasparente, inafferrabile, baluginosa ed espansa, in grado di aprirsi a nudi pittorici e seppiacei, a campi di grano o a oscure registrazioni-video. Che sia il cuore il segreto dello sguardo, che sia il sentimento la soluzione di un mondo che rigetta qualsiasi ipotesi di razionalità.

La prima tentazione critica di fronte a un film come La fille de nulle part è quella, forse troppo facile, di non scrivere nulla: il film si presenta come un strano oggetto filmico, inclassificabile proprio in virtù del suo essere completamente impalpabile, del suo ricondurre ogni immagine a un’idea di presenza spettrale. Quasi l’intera opera è ambientata all’interno di un lussuoso e vecchio appartamento, scenario ideale per ospitare un portale in grado di ricompattare tempo e spazio. L’appartamento è quello vero del regista, che così facendo pare esorcizzare i demoni del suo passato. E’ come se la casa rispondesse, reagisse all’arrivo della donna, provocando strani fenomeni, rumori e movimenti: è significativo che il tavolo, sollevato dalle presenze spettrali che popolano l’appartamento, vada a scagliarsi proprio contro lo specchio, infrangendo qualsiasi idea di riconoscimento: come a dire che ogni uomo ospita l’altro da sé, che ogni esistenza è un mondo di possibilità, che ogni immagine è come un guscio da riempire e completare. Mirabile è infine il modo in cui l’orrore arriva inatteso all’interno di un’estetica così spoglia e realistica: senza nessun preavviso assistiamo, increduli e perfino inquieti, a un fantasma che impugna un coltello e percorre lo schermo con tanto di lenzuolo bianco.

La terapia di Brisseau (ci) coinvolge tutti e finisce per guardare l’illusione per eccellenza: il cinema stesso e la sua grande narrazione che non può fare a meno che reincarnarsi, fino a tornare sempre allo stesso punto, quello della donna che visse due volte, e forse molte di più. L’immagine diviene così un ponte capace di collegare stazioni esistenziali e culturali.

Autore: Samuele Sestieri
Pubblicato il 03/10/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria