
La musica è stata da sempre una componente fondamentale del mondo cinematografico, quasi come se le immagini non musicate fossero spurie. Basti pensare al periodo del cinema muto quando, durante le proiezioni, in sala era presente un pianista capace di creare un contesto sonoro adatto a qualsiasi sequenza che passasse sullo schermo. Con il passare del tempo la scena musicale si è ritagliata uno spazio vitale nel cinema, da qualsiasi punto la si volesse vedere o trasformare: non solo i famosi “temi” costruiti per una sequenza, ma vere e proprie canzoni create appositamente per il film, il contesto o il personaggio dell’opera.
Il cinema si è poi avvalso della musica per andare anche oltre, creando il filone dei musical che, da Singing in the Rain (1952) a The Rocky Horror Picture Show (1975) e Jesus Christ Superstar (1973), tanto successo ha avuto al botteghino. Ci sono poi i biopic musicali, realizzati da registi amanti del cinema e della musica allo stesso tempo; questi possono essere creati in due modi completamente diversi: da un lato c’è la qualità romanzata, in cui la vera storia del cantante/gruppo viene “abbellita” dallo sceneggiatore con l’aggiunta di episodi non veri che migliorano la qualità dell’opera – Amadeus (1984) di Miloš Forman, The Doors (1991) di Oliver Stone o Shine (1996) di Scott Hicks. Dall’altro lato ritroviamo il docu-film, nel quale l’autore ricostruisce l’esatta vita del cantante/gruppo, intervistando i parenti, gli amici, i colleghi, lo stesso cantante o i componenti del gruppo, e seguendolo o seguendoli in tour – un nome per tutti è quello di Martin Scorsese, grande anima rock e amante dei suoi idoli musicali a tal punto da creare su di loro delle opere memorabili, partendo da L’ultimo valzer (1976) e arrivando al meraviglioso ultimo film dedicato alla vita di George Harrison e presentato al Torino Film Festival, Living in the Material World, senza dimenticare opere come Dal Mali al Mississippi (2003), che ripercorre la nascita e l’evoluzione del blues, Shine a Light (2008), film concerto dei Rolling Stones, e, forse il più maestoso di quelli fin qui citati, No Direction Home (2005), incentrato sulla vita di Bob Dylan.
Tante sono le opere arrivate sui nostri grandi schermi, ma altrettante risultano essere quelle che invece non sono passate nei nostri cinema: i motivi posso essere mancanza di distribuzione, film indipendente di regista sconosciuto che non si poggia su una grande produzione, oppure argomento che interessa solo una minima parte degli italiani e quindi non vale la pena investirci. È per questo motivo che la sezione Retrovisioni ha deciso di aprire un mini-ciclo capace di recuperare alcune di queste opere mai viste o dimenticate, seppur importanti per comprendere a fondo la vita di alcuni artisti capaci di cambiare totalmente la scena musicale, grazie ai loro eccessi, ai loro sogni, alla loro arte.
Il primo film esaminato è Kurt & Courtney di Nick Broomfield, autore londinese che decide di ripercorrere le strade di Seattle quattro anni dopo la morte di Kurt Cobain. Un documentario che percorre una duplice strada: da un lato riesce a far rivivere il passato del “principe del grunge” attraverso le interviste ai suoi familiari, le ex-ragazze, gli amici; dall’altro lato, quasi improvvisamente, apre una sorta d’inchiesta sulla morte del cantante (ancora oggi aleggia un alone di mistero sul suo suicidio), avviando un’ipotesi complottista alla cui base ci sarebbe l’omicidio del cantante, probabilmente voluto dalla stessa Courtney Love. Il film, indipendente e girato con pochi soldi, sembra perdere un po’ di verve proprio quando si avvia il secondo punto: non perché sia del tutto impossibile pensare ad un omicidio, ma perché gli elementi proposti non sono soddisfacenti. L’intervista al padre di Courtney Love (il quale ha scritto due libri su Kurt Cobain, dove vede la figlia come possibile mandante dell’omicidio Cobain), l’intervista a El Duce (ex-cantante heavy-metal che confessa alla videocamera che fu la stessa Courtney Love ad offrirgli 50.000 dollari affinché “sparasse in testa a Kurt”), oppure l’intervista a Tom Grant (investigatore privato assunto dalla Love perché seguisse Cobain pochi giorni prima della morte, e il più acceso sostenitore dell’ipotesi di complotto); tutte queste testimonianze partono da una base affascinante, è vero, ma purtroppo muoiono presto, senza scavare prepotentemente alla ricerca della verità e abbandonate dal regista che sembra essersi imbattuto in esse quasi per caso.
Basta però osservare il documentario dal punto di vista musicale e psicologico per scoprire che il lavoro è davvero delizioso – eliminando quindi la tesi complottistica che, pure se interessante, come detto si poggia su di una inattendibilità dovuta alla mancanza d’interesse profondo da parte dei realizzatori, e quindi poco riuscita. Kurt & Courtney è un’opera affascinante quando riporta alla mente dello spettatore l’immagine del musicista grunge, il suo passato travagliato, l’infanzia distrutta dal divorzio dei genitori, la fuga di casa a 16 anni (ed il conseguente e totale disinteresse della madre e del patrigno), la scoperta (fin da piccolo) della musica e la gentilezza di una zia che ha praticamente avviato il percorso musicale di Cobain, offrendogli la possibilità di utilizzare i suoi strumenti e sintetizzatori. Poi il successo, gli eccessi di droghe, il malessere interiore dell’uomo scaraventato improvvisamente sotto le luci della ribalta, e troppo fragile per sostenerle, mentre la sua volontà era quella di esprimere il suo essere tramite le sue canzoni, magari facendosi notare il meno possibile. Infine l’incontro con Courtney Love, il rapporto tormentato e distruttivo, la nascita della figlia Francis, vero amore della sua vita.
Paradossalmente la bellezza di questo documentario risiede nell’assenza delle musiche dei Nirvana e degli ex-componenti del gruppo: prima dell’uscita del film Courtney Love – detentrice del lascito del marito e, di conseguenza, delle musiche del gruppo – ha minacciato pesanti querele se fossero stati utilizzati i pezzi scritti da Kurt. La totale assenza del passato-Nirvana sembra però addirittura giovare al film, al suo tentativo di focalizzare l’attenzione dello spettatore sull’uomo-Cobain, tralasciando la sua essenza di mito. Ecco allora che ogni reperto musicale riconducibile a Kurt viene estromesso dal film finito: non solo le canzoni dei Nirvana, ma anche registrazioni inedite realizzate da un Cobain ancora adolescente e non ancora leader del gruppo capace di creare uno stile di musica innovativo e sperimentale al tempo stesso, ovvero il grunge. Nemmeno la canzone che sua zia (vera e propria ispiratrice di Kurt) ha scritto per lui viene fatta ascoltare. Anche in questo elemento si scopre la bravura di Broomfield: l’autore riesce definitivamente a scindere un binomio immortale come quello di Kurt Cobain/Nirvana, così da concentrarsi sull’uomo, il ragazzo fragile che non ha resistito al peso del suo stesso mito. Ciò che resta agli spettatori è una stralcio di una poetica intervista al protagonista, sulla riva di un fiume, intento a rimembrare il suo passato squattrinato, quando era davvero bello entrare in un negozio di articoli usati e comprare degli oggetti a due dollari. È proprio in questa intervista che viene fuori la vera anima di Kurt Cobain, nel momento in cui esprime il suo malessere pensando che non ha più senso poter acquistare l’intero negozio con migliaia di dollari. Ciò che manca è la felicità di fondo.
Kurt & Courtney è un film da recuperare, soprattutto per gli amanti di Cobain e della buona musica; un’opera affascinante nella sua volontà di distruzione del mito e di rendere omaggio all’uomo, al ragazzo, alle sue sensazioni e le passioni per l’arte e per il bello. Nick Broomfield riesce a centrare il segno, e realizza in celluloide ciò che Kurt ha fatto in maniera, purtroppo, più violenta: abbattere un mito ingombrante per lasciare spazio ad una persona semplice, fragile e incantevole.