The Knick/Soderbergh - Esibizione di un privilegio

Il grande cinema al servizio della televisione

Leviamo subito adito a ogni dubbio: The Knick è una della serie televisive più importanti della stagione 2014. I riverberi della sua rilevanza si trovano in ogni dove, a cominciare dal campo più immediato: l’accoglienza di pubblico e critica. In campo nazionale si è trattato di un instant cult, nulla di più nulla di meno; non è stato lungo infatti lo iato tra la trasmissione dell’episodio pilota e l’elevazione al rango di opera, specie a seguito della messa in relazione tra il cosa con il come, tra la materia prima e lo stile inconfondibile della narrazione e della regia. In campo internazionale le cose non cambiano molto: la serie è stata venduta in tantissimi paesi con un packaging dove la parola capolavoro riecheggiava senza soluzione di continuità. In Italia addirittura è stata trasmessa l’intera stagione durante la Festa Internazionale del Film di Roma, riuscendo anche a proiettare il finale della serie nella stessa settimana della trasmissione statunitense, praticamente una rarità (complice anche la presenza di Clive Owen nella Capitale). Volendo tralasciare un attimo le reazioni di tipo più impressionistico e le strategie commerciali realizzate ad hoc per vendere un prodotto che coinvolge grandi nomi, è indubbio che la serie ha calamitato su di sé una quantità di attenzione inedita da parte degli studiosi che si occupano di audiovisivo. Esattamente come nel caso di True Detective (e non è certamente una coincidenza), The Knick ha divelto quel recinto che separa gli studiosi di televisione da quelli di cinema, invadendo trasversalmente questa macro-area grazie a una serie di caratteristiche immediatamente identificabili: il legame con la Settima Arte, l’attenzione alla regia, la coerenza estetica dell’intero lavoro, la presenza di figure divistiche cinematografiche e quella “autoriale” di Steven Soderbergh.

Nonostante tutte queste certezze stiamo parlando di un oggetto sfuggente, difficile da inquadrare e ancor di più da interpretare. Uno dei modi più efficaci per capire di cosa stiamo parlando (sicuramente quello preliminare) consiste nel mettere in relazione le ragioni di tipo economico-produttivo con le caratteristiche estetico-narrative dello show in questione, ma il procedimento è senza dubbio generalizzabile. Risulta altresì impossibile analizzare gli esiti estetici di un prodotto del genere se non ne si comprende la struttura profonda e il suo posizionamento all’interno dei diversi modelli televisivi. Non farlo significa rischiare di mancare il bersaglio, seguire una strada che conduce a un’analisi miope, non razionale, che può anche funzionare se si guardano la singola sequenza o il singolo episodio sotto la lente di ingrandimento, ma che ad una visione maggiormente sistemica non esita a far acqua da tutte le parti. La prima certezza è la seguente: a un determinato modello economico corrisponde un preciso modello estetico. Ovviamente la consequenzialità è molto più complessa di così, specie perché non è solo l’impalcatura economica da cui prende i natali la serie a essere determinante, ma anche altri fattori di capitale importanza, come quelli relativi all’innovazione tecnologica o quelli che concernono le polizie istituzionali che governano il sistema di riferimento.

La domanda più immediata prima di arrivare a The Knick (o proprio per arrivarci) è: cosa si intende per modello? Senza dilungarci troppo per evitare di fuoriuscire dal tema di questo articolo possiamo dire che un modello televisivo è definito dalla compresenza di determinate caratteristiche produttive e altrettante estetiche, una corresponsabilità dove le prime e le seconde sono legate da un rapporto di consequenzialità biunivoca. Non si tratta di qualcosa che va interpretata, ma di un campionario di peculiarità che viene identificato ex ante, tanto da dare luogo a una categoria merceologica ben precisa. Un modello produttivo definisce un tipo di prodotto che a sua volta definisce un tipo di pubblico. Prima che una serie veda la luce sono già chiarissime, a seguito di un’analisi di questo tipo, numerose sue caratteristiche estetico-formali che vedranno una reale concretizzazione solamente al momento della realizzazione vera e propria. All’interno di questo spazio esplorabile, navigabile, manipolabile, ma pur sempre in una certa misura recitato, dentro questo spazio che stiamo chiamando modello, i prodotti seriali trovano una loro personalizzazione a seguito della quale è possibile effettuare una vera è propria analisi.

Tornando di gran carriera su The Knick possiamo a questo punto sostenere che si tratta di una delle serie maggiormente riuscite all’interno della propria categoria merceologica, sotto numerosi punti di vista, non solo quelli relativi alle indiscutibili qualità formali. Si tratta della seconda serie originale di Cinemax, rete cable premium in grande ascesa e sorella “minore” della HBO. Fino a due anni fa l’emittente si occupava esclusivamente di film softcore e action molto spinti, offrendo una tipologia di prodotto che potremmo definire “ai limiti”. Con le due serie con cui si è lanciata nel mercato dei prodotti seriali, Cinemax ha iniziato un processo di rebranding, pur rimanendo nella continuità di un’identità consolidata negli anni e che sarebbe molto stupido dilapidare. Banshee, anche in quanto serie di lancio, è stato il prodotto-manifesto, l’esempio di una tematizzazione del sesso e della violenza studiata fino al singolo frame; The Knick è la sua naturale prosecuzione/evoluzione.

Immagine rimossa.

Senza dilungarci tanto sulla trama della serie diciamo solo che racconta qualcosa di originario, qualcosa che ha strettamente a che fare con la propria nazione e con un sentimento di innovazione e competizione prettamente americano. Siamo all’inizio del Novecento, nel pieno boom dell’urbanizzazione e dell’industrializzazione, e siamo accompagnati dalla macchina da presa di Steven Soderbergh (regista di tutti e dieci gli episodi di questa stagione) all’interno del The Knick Hospital, in cui John Thackery diventa ben preso il capo-chirurgo. Già a questo punto ogni ulteriore cenno al plot è superfluo rispetto al nostro discorso. C’è invece una sequenza nell’episodio pilota particolarmente paradigmatica, quasi una dichiarazione di intenti della serie, che non a caso è messa nei primi minuti. In una sala operatoria fatta ad anfiteatro – dove l’operazione chirurgica è al contempo anche dimostrazione agli occhi del mondo, messa in scena della scienza in diretta – assistiamo a un parto cesareo a tutto schermo, effettuato ovviamente con tecniche artigianali e assolutamente sperimentali. Nudità e crudezza delle immagini recitano la parte del leone, ma soprattutto si evince una sorta di esibizione della propria natura, ovvero della possibilità di mostrare questo tipo di immagini (il background e le larghe regolamentazioni sulla censura fanno di Cinemax una delle pochissime reti al mondo in cui è possibile mostrare questo tipo di sequenze), certificando un privilegio quasi unico in televisione e ancor più raro al cinema, dove un certo tipo di rappresentazione, che per comodità chiamiamo “estrema”, è sempre più programmaticamente evitata per evitare problemi di distribuzione nel circuito delle sale cinematografiche.

In The Knick c’è la voglia di fare una televisione di qualità perseguendo la costante ricerca di unicità, appoggiandosi ai nomi (e ai talenti) di Steven Soderbergh e Clive Owen; c’è la deliberata intenzione di forzare la norma e di esaltare, con la qualità di un’estetica estremamente raffinata, il privilegio di cui è permeato lo show, ovvero la possibilità di fare un vanto di tutto ciò che agli altri è sistematicamente impedito.

Ovviamente tutto ciò è già scritto sulla carta, prima della trasmissione del pilot, ragion per cui prescinde dal giudizio sull’opera, referto che a posteriori può tranquillamente decretare fallimentare l’operazione. Fortunatamente non è il caso di The Knick, serie che per la sua potenza visiva e narrativa, grazie a una maniacale cura di ogni parte della realizzazione, dalla colonna sonora elettronica e straniante all’illuminazione, contribuisce ad alzare nettamente l’asticella della qualità media della produzione televisiva contemporanea.

Autore: Attilio Palmieri
Pubblicato il 10/12/2014

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