Meek's Cutoff
Uno dei migliori film di Reichardt, un western ricercato, rarefatto, dedito agli interrogativi più ancestrali e profondi della natura umana, inevitabilmente simbolico in modo urgente e necessario.
Kelly Reichardt è quella che si definirebbe una voce pura e incontaminata: la sua totale asciuttezza espressiva, assolutamente non inquinata dalle logiche imperanti e inflazionate della visione hollywoodiana contemporanea, ne ha fatto uno dei più importanti e radicali artefici di un cinema americano indipendente di (estrema) nicchia, che oltreoceano genera moltissimo apprezzamento critico faticando però poi non poco a trovare un mercato europeo e men che meno una distribuzione italiana. Cinema ricercato, rarefatto, dedito agli interrogativi più ancestrali e profondi della natura umana, inevitabilmente simbolico in modo urgente e necessario: in tutto il cinema della poetessa dell’indie a stelle e strisce si respira uno spaesamento interiore che lentamente e inesorabilmente si fa anche sperdimento geografico e atmosferico, in un continuo, vellutato passaggio dal particolare all’universale e viceversa, un flusso continuo di sensazioni compresse e scarnificate, private di ogni retorica e da ogni senso dello spettacolo, sia esso relativo alla rappresentazione dello spazio o alle coordinate del tempo del racconto.
Cinema difficile, certo, ma miracoloso. Meravigliosamente epurato dagli eccessi e imperniato, collateralmente, perfino su una personalissima rivisitazione di due generi tipicamente americani: nella fattispecie, il road movie di Old Joy e in ultima istanza proprio il western di Meek’s Cutoff, l’approdo definitivo, probabilmente il massimo capolavoro fin qui realizzato dalla regista e il degno culmine di un percorso di strepitoso pregio artistico.
Ci troviamo nel 1845, nei primi giorni dell’Oregon Trail e una carovana composta da tre famiglie ha assoldato Stephen Meek perché li accompagni fino alle montagne di Cascade. Meek guida il gruppo, ma l’incontro con un nativo americano cambierà le carte in tavola: proseguire sulla via tracciata dalla guida ufficiale o seguire le indicazioni di colui che dovrebbe essere il nemico? E traslando lievemente il quesito in chiave metaforica: abbandonarsi a una direzione nuova e imprevedibile oppure proseguire su un tracciato consolidato ma meno stimolante? Un interrogativo che sintetizza al meglio il senso di incertezza e vaga indeterminatezza in cui Reichardt affonda il paesaggio americano in Meek’s Cutoff, immortalando così con una cadenzata istantanea – ossimoro che ben calza con la fissità reiterata che contraddistingue il film a livello compositivo – le contraddizioni di una non-America rivista all’alba delle sue origini, di fatto l’unico frangente in cui i presupposti per un miglioramento possono (o per meglio dire potevano) realizzarsi compiutamente. Un rifugio contundente e ostile nel western che coincide quasi con una dimensione nebulosa, acquietata e onirica, in cui tutto è predefinito, virginale, al grado zero di complessità ma paradossalmente non semplificato. Piuttosto densissimo, proprio perché trattasi di un calderone ribollente (il celebre meltin’ pot) che deve ancora definirsi e pertanto può ancora tramutarsi in tutto, dare luogo alle soluzioni finali più insperate e preziose ma anche agli esiti più desolanti.
Meek’s Cutoff rilegge il mito della frontiera costruendone una sua versione personale, riveduta e corretta, per una volta fuori dagli omologanti canoni maschilisti del genere. Reichardt vi concilia classicità (bando quasi assoluto a qualsiasi trovata lunare e sghemba a vantaggio di un totale rigorismo, esplicitato formalmente attraverso la scelta di girare in 4:3) e iper-sperimentalismo: il suo west al femminile (Michelle Williams torna a lavorare con la regista dopo la bellissima prova fornita in Wendy and Lucy) apre voragini ben oltre le vallate a strapiombo della conformazione territoriale, dilata la percezione dello spettatore creando spazi desertici, vuoti e morti tanto quanto i tempi, rovescia l’incanto della promised land delle origini mettendone in campo un suo aspro e terragno contraltare, fotografato senza risparmiare nulla sulle zone d’ombra e i margini d’oscurità, tant’è che il risultato finale appare al contempo plumbeo e assolato.
La lettura iniziale della cacciata di Adamo ed Eva dal Paradiso Terrestre viene a coincidere con una sorta di esodo biblico in carovana, quasi una rivisitazione minimalista della diaspora ebrea dall’Egitto e delle grandi fughe della storia umana (e americana), ispirata però in questo caso a un evento realmente accaduto. Tra l’impalpabilità di un Antonioni, l’incomunicabilità materiale dell’indiano le cui parole non vengono mai comprese con esiti stralunati e l’apocrifa riscrittura del western in tutta la sua acida ostilità (riconducibile a un Monte Hellman o a un Nicholas Ray), Reichardt ci dona l’unica, destabilizzante forma di esistenzialismo cinematografico oggi possibile, che può e deve nascere non dalle smaniose elucubrazioni dell’autore ma da un tessuto di inquietudini che esalano concretamente dalla rappresentazione fisica di un’incertezza, di un viaggio senza mappa o appigli stabili, la cui meta, oggi come allora, non è più così scontata.