Incontro con Clive Owen - La natura imprevedibile dell'essere attore
L'attore britannico ha incontrato il pubblico al festival di Roma in un masterclass gremita: aneddoti, progetti di ieri e di oggi e l'ultimo grande ruolo: il Dr. John Thackery di The Knick

E’ stata incredibilmente ricca di spunti e sollecitazioni la masterclass con Clive Owen tenutasi nei giorni scorsi al festival di Roma. Il divo britannico ha infatti ammaliato la platea con classe da vendere ma anche con quella che è parsa una perfetta inclinazione a intrattenere il pubblico a più livelli, sulla sua carriera, sui registi con cui ha lavorato, sul modo in cui sceglie i ruoli e sugli inizi del suo percorso attoriale. L’interprete, palesemente un conversatore di primo livello, era dalle parti dell’Auditorium per presentare The Knick, il medical drama diretto da Steven Soderbergh il cui finale di stagione è stato proiettato in contemporanea con l’America.
Mr. Owen, anche se è un po’ un cliché, iniziamo con una domanda molto semplice: com’è stato per lei farsi largo nel mestiere dell’attore? Quando si è reso conto che poteva farne una professione?
Io sono cresciuto a Coventry, sono andato in una scuola popolare e ho mosso i primi passi in un ambiente in cui era duro poter coltivare simili ambizioni. A tredici anni feci un provino per Oliver! e ottenni la parte, facevo Dodger, era una recita scolastica. La prima volta che ho recitato mi sono detto: è questo che voglio fare nella vita. Sono stato abbastanza fortunato perché nella mia città c’era anche un teatro per i giovani, si facevano delle commedie, e chi lo gestiva è andato in seguito a lavorare alla Royal Academy e lì l’ho ritrovato. Prima che cominciassi a lavorarci io i miei genitori non erano mai andati a teatro, eravamo una famiglia operaia in un città operaia e ovviamente la mia decisione non fu presa subito sul serio, ma ero davvero determinato. A pensarci bene ci sono delle cose nella mia vita che potevano prendere completamente un’altra strada. Quando a un provino per la Royal Academy mi chiesero quante scuole di teatro conoscessi, io risposi che conoscevo solo quella e loro probabilmente pensarono che era il caso di considerare qualcun altro, anche se poi mi andò comunque bene. Se non fossi andato in quella scuola probabilmente non avrei imparato le stesse cose che ho poi effettivamente appreso e forse non sarei qui adesso.
Nei suoi ruoli c’è un aspetto ricorrente che lei si porta con sé: i suoi personaggi all’apparenza sembrano sempre dei soggetti da working class, solo che poi c’è qualcosa, una forma di intelletto spesso, che li riscatta e li porta a elevarsi.
Non credo in effetti che essere un uomo della working class voglia dire essere sprovvisti d’intelletto. Ma è chiaro che vengo da un ambiente in cui mi ero mosso come un ragazzo appassionato che impara delle cose e ciò da cui provieni non può non incidere sulla tua carriera. Io con la mente torno sempre un po’ alle origini e so che c’è un altro Clive molto lontano dal successo e dalla popolarità che vive ancora a Coventry e non ha avuto i miei colpi di fortuna. Ne sono perfettamente cosciente.
(a seguito della visione della clip di Closer in cui il personaggio di Owen e quello di Natalie Portman dialogano alla galleria d’arte, ndr) Abbiamo scelto questa sequenza per la chimica e l’interazione che si genera tra i due personaggi, che come attore sono alcuni dei suoi marchi di fabbrica.
Sì, sono spesso attratto da personaggi che instaurano questo tipo di relazioni e in particolare quelli di Closer li ho sempre trovati bellissimi. All’inizio facevo a teatro il ruolo di Jude Law e il testo mi ha sempre fatto impazzire, ne adoravo la scrittura e ricordo bene l’entusiasmo che mi prese nel leggere quel brano, al pensiero della possibilità effettiva di interpretarlo. Poi Mike Nichols mi ha chiamato e mi offrì il ruolo dicendomi che c’erano già Jude Law, Julia Roberts e Natalie Portman a bordo.
Come sceglie di solito i suoi personaggi?
Si tratta di una serie di decisioni e non so cosa di preciso mi spinge a scegliere, ma posso dire che mi piacciono le sfide. Non si tratta di far sì che il pubblico sia d’accordo con te o che tu gli piaccia, ma piuttosto che ti capisca.
Qualcuno ha detto che per essere grandi al cinema bisogna trovare una propria forma di impassibilità. Non fare niente in un modo particolare insomma, lasciare che sia il cinema a fare per se stessi. E lei questo lo fa benissimo, lascia che sia il cinema ad alimentare l’ambiguità e la vulnerabilità. Lei è così ambiguo che a volte mentre recita non si capisce se rivolgendosi a qualcuno sarà dolce e ironico o ci sarà aggressività nel suo sguardo.
Trovo che tutto ciò sia molto interessante. E mi tocca ricollegarmi nuovamente alla mia tradizione di attore teatrale. Trovo infatti che al cinema un eccesso di azione da parte dell’attore, ma anche di artificio e di stratificazione su ciò che si dice e si fa, riveli tutta la falsità del mezzo. Preferisco un approccio immediato, d’istinto. Ecco perché i gradi attori di teatro al cinema non funzionano, perché la macchina da presa quell’enfasi la riconosce e la cattura istantaneamente, non c’è scampo, viene rivelata per quella che è. I troppi dettagli o le caricature al cinema non funzionano mai.
Si rivede mai?
No, non è mia abitudine. Guardando indietro poi mi sembra davvero di essere un ingenuotto e mi chiedo: come mi è venuto in mente di fare quella scena in quel modo? Sono un po’ un perfezionista in realtà. E’ uno shock quando ti rivedi: vedi il tuo corpo, il modo in cui cammini e lo fai assolutamente dall’esterno, ma come attore non puoi permetterti di guardare indietro o di pensare a ciò che era ieri. Anche perché ogni attore è il peggior giudice di se stesso e anch’io lo sono di me: controllo ogni dettaglio, non riesco a vedermi da una distanza e da una prospettiva salutare, perciò preferisco affidarmi al mio istinto piuttosto che rimuginare. Capii che non devo più rivedermi all’inizio della mia carriera, e da allora non lo faccio mai.
Com’è stato invece lavorare con Altman in Gosford Park (altra clip, ndr)?
In quel periodo stavo lavorando a Croupier e Altman mi disse che non sapeva ancora molto del film che avrebbe fatto, ma che era un film d’epoca e voleva che io ci fossi. E’ un vero genio ed è stato incredibile lavorare con lui: ricordo che il primo giorno di riprese, in una scena, gli dissi che secondo me il mio personaggio doveva stare zitto e ricevere le informazioni che gli altri gli davano sull’omicidio, senza parlare a sua volta. Lui scherzò a proposito del fatto che iniziavo a tagliarmi battute fin dal primo giorno, ma alla fine feci davvero così. Dava libertà, ma chiedeva in cambio molto. Le sue direttive erano queste: tutti dovevano venire sul set pronti ad intervenire, poi magari venivi lì e lui ti mandava a casa perché la sua immaginazione quel giorno si era dirottata su altro. Vederlo lavorare era come una sinfonia, come vedere un musicista all’opera. Diceva sempre: se sapete cosa state facendo non vi noteremo, se non lo sapete vi noteremo. Il suo incubo era un attore che dice la sua battuta così com’è stata scritta e l’altro gli risponde nello stesso identico modo. Ragion per cui nessun altro film di chicchessia può fluire nel modo in cui fluivano i suoi film. Ha diretto un numero di attori assolutamente folle e poteva far sì che ogni interprete recitasse al suo meglio ma sempre con assoluta serenità, un sentimento che su un suo set si respirava alla grande. Non c’era mai un contenzioso, mentre all’inizio della mia carriera m’è capitato di lavorare con dei registi che mettevano quattro attori in una stanza e sorgevano subito delle tensioni, dopo neanche un attimo già si sbranavano.
Recitare è un po’ come giocare a tennis, qualcuno dice. E’ importante soprattutto ciò che fa uno in relazione all’altro, la capacità di reagire a ciò che fa l’altro giocatore. E in questa scena de I figli degli uomini in cui lei recita con Michael Caine (la clip appena passata, ndr) emerge proprio questo.
Certo, le scene migliori sono sempre quando due attori recitano insieme. Quando c’è una generosità e uno scambio va sempre tutto molto meglio. Ancora oggi si parla di Humphrey Bogart e Lauren Bacall, a proposito di questo, perché non è il singolo a dettare l’insieme ma è il ritmo, il galoppo.
La sua carriera per certi versi somiglia proprio a quella di Caine, che negli anni ’50 e ’60 ha fatto tanto cinema impegnato e d’autore ma non ha disegnato neanche un cinema più basso, di genere, proprio come ha fatto lei.
Sì, poi Michael Caine è una vera leggenda, lavorandoci assieme ho capito perché è al vertice da così tanto tempo. E’ acuto e insieme incredibilmente profondo e attento, metodico e disciplinato, non solo non sembra mai innaturale in quello che fa ma dà l’impressione anche che tutto quanto avvenga con la massima naturalezza. Non sono molti gli attori che riescono a fare ciò, penso anche a Julia Roberts che è bravissima in questo, ma quando succede è incredibile. Prima de I figli degli uomini mi era stato proposto un altro copione, in cui mi piaceva il mio personaggio ma non mi piaceva tutto ciò che gli stava intorno. Nel caso del film di Alfonso Cuaròn invece il mio personaggio era un abbozzo, ma è stato Alfonso a elettrizzarmi con la sua visione del film e a catapultarmi dentro di esso. Sapevo che volevo esserci, che volevo far parte di quell’operazione. Il mio ruolo era semplicemente non dare fastidio e non disturbare il processo creativo di Alfonso, essere dentro a un mondo futurista eppure così vicino.
Cosa ci dice di Croupier? E’ il film che l’ha lanciata.
E’ un piccolo film, ma è stato fondamentale per la mia carriera. Hodges, il regista, è un tipo unico, uno scrittore fantastico e grandissimo. Il caso del film è stato piuttosto insolito: le persone che l’avevano realizzato alla fine non ne erano così soddisfatte, è partito in modo traballante ma poi c’è stata una persona che l’ha visto e l’ha amato, cominciando così a organizzare proiezioni ovunque, a New York, a Los Angeles, consigliandolo a chiunque. I grandi critici a quel punto l’hanno applaudito. Mi ha spalancato le porte del pubblico americano.
Come si prepara a ogni film? Fa una lunga ricerca sul suo personaggio, o no?
Dipende molto dal tipo di progetto. Per il film per la tv su Hemingway (Hemingway & Gellhorn) non mi avrebbero fatto fare un ruolo così senza un grosso studio alle spalle su un grande autore americano, a me che sono inglese e vengo da Coventry. Per cui ho letto tanto in quel caso, sono stato in viaggio a Parigi e a Cuba, ma non è una regola fissa. Per il Thackery di The Knick, ad esempio, sono arrivato al ruolo conoscendo un po’ il periodo, ma non di più. La costumista della serie, Ellen Mirojnick, tra l’altro ha lavorato splendidamente, dà a ogni attore del materiale su cui prepararsi e insieme a lei abbiamo costruito il look del personaggio come fosse una specie di Bowie del 900. Io ero incredulo, avevo già lavorato in film in costume e lì c’era un esperto che ci dava indicazioni su che ti tipo di movimenti si potessero fare e quali erano da evitare. Invece in questo caso ho potuto davvero caratterizzare Thackery con questa forte modernità, lei mi ha detto che potevo fare quello che volevo e abbiamo riso e scherzato spesso. Gli stivali me li ha proposti lei, chiedendosi se mi sarebbero piaciuti con molto scetticismo, ma appena li ho visti li ho semplicemente adorati!
C’è un ruolo che non ha ancora interpretato e che le piacerebbe impersonare?
No, non penso mai a chi vorrei interpretare in modo arbitrario. Mi piace una certa apertura all’ignoto e l’affronto col massimo della gioia, non penso a un personaggio particolare ma mi piace pensare che qualcosa di grande sia sempre dietro l’angolo. Amo la natura imprevedibile di essere un attore e mio fido del mio istinto, seguo le sue traiettorie multiformi e non rispondo ad altro al di fuori della mia inclinazione.