Il Solengo
Protagonisti del documentario, un gruppo di anziani cacciatori laziali. I loro racconti su “Il Solengo” Mario “de Marcella” sono la forma del film.

Da tutti paragonato al maschio del cinghiale che vive lontano dal gruppo. Solitario. Il Solengo è Mario «de’Marcella», presenza/assenza di questo lavoro di Alessio Rigo de Righi e Matteo Zoppis, entrambi classe 1986, origini italo-americane e amici dai giorni dell’infanzia. Per entrambi, studi di cinema a New York mentre sono rispettivamente Buenos Aires e Berlino, oggi, le loro città. Insieme avevano già diretto il corto documentario Belva Nera (2013), premiato a Cinéma du Réel l’anno scorso, in cui un gruppo di anziani cacciatori della Tuscia narrava dell’avvistamento di una pantera nei boschi. E questo loro nuovo documentario, che ha da poco vinto il Concorso Internazionale al Doc Lisboa, ancora da quei luoghi, dalle campagne e dalle foreste della provincia viterbese, proviene: altro racconto di quella comunità, sguardo che ascolta, che intercetta storie, leggende, umanità; è la curiosità e la scoperta di bambini che sognano mondi sconosciuti e avventure.
Il Solengo, dunque, è una sorta di prosecuzione, un tassello ulteriore, un incrocio di realtà, nuova diramazione narrativa di un salto indietro nel tempo. Mario de’Marcella è una polifonia che ha i volti e i corpi, le esistenze di chi prova a ricostruirne, tra ricordi, testimonianze, e “così dicono, eh, io non lo so”, la sua vita, il suo esilio tra gli alberi e gli animali, il suo vivere per tantissimi anni lontano da un mondo non amato e ostile. Figlio di fattucchiera che annunciava apocalissi, forse assassina forse no, bambino forse nato in carcere o comunque cresciuto in quell’ambiente nei suoi primi anni di vita, scorbutico e anche violento, asociale, ora folle ora incompreso, più a suo agio con la natura che con i suoi simili. La “verità” è sfondo, progressivo, sfaldamento in questo teatro dell’oralità che i due registi filmano in un documentario che è costruzione drammaturgica dentro anfratti di memoria, tentativo di realtà dentro le sue stesse finzioni, bugie, precarietà; la promessa di una storia e del suo strano eroe diventa qualcos’altro, un gioco con il tempo, per poterlo toccare, vedere, sentire. Come esperienza, un viaggio che si insinua tra la bidimensionalità dei “personaggi” e quello che le loro parole non sanno, figure davanti a un obiettivo in ricezione, custodi inconsapevoli di una sceneggiatura di comunità, la scrittura di un sentimento che silenzioso scorre in un corso d’acqua, respira nei resti di una capanna, è scolpito nella roccia di una grotta.
Il Solengo è una confusione dagli umori cangianti, un’apparenza autentica, una composizione imperfetta, è quello che rimane. Non è né il contenitore, né il contenuto di tante storie, ma è la loro forma. Questo è ciò gli autori cercavano, questo è ciò che ci lasciano trovare. Qui c’è la vera vita de Il Solengo, per attraversarlo liberamente, per farne la nostra storia da immaginare. Come una visione da inventare ancora una volta, come una personale scoperta, un segreto da custodire, il nostro luogo da abitare. Come se Mario, infine, fossimo un po’ anche noi, per proteggerci dal rumore e dalla banalità, dalle piccole e gratuite cattiverie quotidiane. Come se Mario l’avessimo conosciuto anche noi, ieri a subire le sue immotivate o meno urla, oggi a incontrarne inaspettatamente un gesto gentile. Come se la sua voce, anche solo per un attimo, l’avessimo ascoltata anche noi.