Il ponte delle spie - Qualcosa c’è che non sopporta un muro

Una nuova lezione morale nel cinema di Spielberg, che sempre più parla il linguaggio della nostra infanzia cinematografica per restituire al presente la forza esemplificativa dell’Ideale

Prima di costruire il muro avrei voluto sapere cosa

chiudevo dentro o lasciavo fuori,

e a chi recavo offesa.

Qualcosa c’è che non sopporta un muro”

Robert Frost,

Riparando il muro

“Qualcosa c’è che non sopporta un muro”, dice Robert Frost. Qualcosa di indomabile, innato, qualcosa che non si arrende alla fredda geometria di una linea che divide, chiude fuori, offende. Queste mura possono essere fisiche e metafisiche, possono dividere stati, regioni, città, persone, ma tagliano tra loro anche il giorno e la notte, la pace e la guerra. Ciò che vale nell’uno non dovrebbe valere nell’altra, dice Cicerone. “Silent enim leges inter arma”, in tempo di guerra anche le leggi tacciono. Ma forse non dovrebbero.

Proseguendo un percorso di ricostruzione storica ma soprattutto indagine morale, il cinema di Steven Spielberg torna a sondare il rapporto tra il cittadino e la Legge attraverso la lente dell’etica personale. Da questo punto di vista Lincoln e Il ponte delle spie sono due film inscindibili, in entrambi i quali la dimensione astratta dell’Ideale civile e politico è chiamata a trasformasi in azione concreta e quotidiana. Tuttavia, nel cercare un dialogo tra le due opere, emerge un’apparente incongruenza: come far convivere il senso civile e la fede nella Costituzione dell’avvocato James B. Donovan con gli interventi più controversi compiuti da Lincoln durante la fase bellica della sua presidenza? Come sopravvivono questi principi in un operato politico che abolisce il diritto di habeas corpus in tempo di guerra e istituisce tribunali militari per i civili? E’ quindi giusto che in certi momenti di crisi le leggi tacciano?

L’accostamento tra i due film sembrerebbe portare ad una contraddizione insolubile, e tuttavia il confronto è necessario perché è proprio in esso che emerge una delle cifre fondanti del cinema di Spielberg, ovvero il ruolo chiave che ha l’individuo nel corretto funzionamento dello Stato.

In quanto intellettuale profondamente americano, Spielberg è sempre partito dal singolo visto come attore capace di intervenire e modificare e migliorare la propria comunità. Tuttavia quest’impulso vitalistico è nulla senza un senso di responsabilità civile e morale, senza una bussola che indichi la direzione e un motore che spinga all’azione. L’abuso di potere e la corruzione di Lincoln trovano allora la loro giustificazione morale perché è tramite esse che viene servito uno scopo più grande, necessario nella sua urgente umanità a ridefinire l’identità della Nazione. Nella sua solitudine fragile e assoluta, il Lincoln di Spielberg è una figura che incarna l’ideale illuministico della ragione, come ci dice la luce della candela nella dissolvenza finale del film, quando la mente e l’etica del singolo si sovrappongono al cuore della fiamma.

Grazie al suo statuto morale, ai suoi dubbi e alla portata delle sue azioni, questo Lincoln è in poche parole un modello. Ma cosa succede a quelle brecce aperte nel tessuto costituente della nazione, a quelle infrazioni perpetuate per un fine necessario, alla caduta del mito? Succede che qualcun altro deve raccoglierne la fiaccola, qualcuno che però non sia più eccezionale e sopra le parti come un Presidente ma faccia piuttosto parte del tessuto più vero e comune della nazione. James B. Donovan non è un eroe ma un buon cittadino, e lo è per come rispetta la Legge, per come crede in essa e che essa vada rispettata anche e soprattutto nelle circostanze fuori dall’ordinario. Perché è proprio nel modo in cui un paese risponde ad esse che la comunità trova la sua più vera identità. E se questa volontà cozza contro le pretese di un Potere che si aspetta di poter riscrivere e adattare il “manuale delle regole”, allora ben venga la disobbedienza del singolo nei confronti di chi quelle norme è chiamato teoricamente a difenderle. Il tutto per un bene superiore che rispetti la Legge nel senso più alto e necessario del termine.

Come giustamente scrive Giulio Casadei nel suo articolo, “nel momento della trasgressione delle leggi (simboliche), l’uomo spielberghiano le riafferma, seguendo l’ideale che le ha ispirate nel corso del processo legislativo.” Al pari di Lincoln Donovan si pone quindi in quel rapporto contraddittorio con la Legge e l’autorità che privilegia l’azione individuale e contraddistingue da sempre il cinema di Spielberg. Una tensione questa che nella sua purezza appare chiaramente irreale, astratta, e quindi soggetta spesso ad accuse di vacuo ottimismo e retorica spicciola.

Al contrario invece questo cinema, sempre più consapevole del carattere terrigno e violento del mondo umano, decide di contrapporre ad esso l’Ideale, che non a caso assume la forma espressiva di un neoclassicismo abbacinante e maestoso, volutamente anacronistico, intenzionato a dialogare attraverso la sua meticolosità con la mitologia e il pensiero del cinema classico. E’ qui infatti che secondo Spielberg è possibile ritrovare quello stato di primigenio idealismo proprio di un cinema che non vuole essere né specchio né monito ma modello.

In un film che incamera il processo dialettico fin dal suo titolo (che cos’è un ponte se non il venirsi incontro) e ne fa veicolo espressivo attraverso l’uso ripetuto, e magistrale, di match cut, Spielberg porta in scena il riconoscimento reciproco degli opposti. Grazie ai ripetuti accostamenti tra le parti apparentemente contrarie della vicenda Il ponte delle spie ricuce lo strappo del muro, trovando nel campo-controcampo una forza palingenetica e redentiva da contrapporre ai muri non solo della Storia ma dell’oggi. E’ al presente che si rivolge questa lezione morale, che parla il linguaggio della nostra infanzia cinematografica per restituire la forza esemplificativa dell’Ideale, del modello. Del resto in un paese ontologicamente iconografico come gli Stati Uniti non può che essere il cinema quanto di più vicino ci sia all’iperuranio. Cosa è quindi che non sopporta e odia non un muro, ma tutti i muri? Il cinema stesso, e con esso l’umanità che alberga nella parte migliore di noi stessi.

Autore: Matteo Berardini
Pubblicato il 10/01/2016

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