Il cinema di Tony Scott

Un volume che rende giustizia alle tante, complesse sfaccettature del cinema di Tony Scott.

Quanti oggi si abbandonano a elucubrazioni filosofiche sulla portata teorica del cinema di Michael Bay e sulle sue riflessioni ontologiche a proposito della nozione di montaggio futurista e alla fine dell’epoca delle macchine pensanti (i Transformers, in questo senso, rappresenterebbero l’automatismo di un pensiero meccanico cui basta guardarsi allo specchio per continuare ad esistere), forse farebbero bene a riconsiderare con cognizione di causa il cinema di Tony Scott. Perché il regista statunitense coi suoi film aveva tratto in merito conclusioni ben più interessanti, tanto definitive quanto frettolosamente dimenticate, complice anche, duole ammetterlo, la sua morte suicida. Il volume a cura di Mario Gerosa, pubblicato all’interno della collana Cinema de Il Foglio Letterario, ha il merito di riportare alla ribalta la complessità strutturale di un cineasta che, a differenza di un Bay qualsiasi, era davvero un autore con tutti i crismi del caso, nonostante l’ovvia distanza da certi schemi dell’autorialità all’europea e una rozzezza costitutiva nell’approccio registico e nei modelli narrativi ed estetici adottati. La meditazione formale sul cinema di Scott ben si presta, e questo il libro di Gerosa si propone di sottolinearlo in più di un’occasione, ad affrontare la contemporaneità con uno sguardo intertestuale e ipertestuale non banale e non telefonato: perché la speculazione del regista statunitense era davvero lontano dall’ottusità fracassona ma piuttosto eclettica, poliedrica ed onnicomprensiva, e della cultura moderna ha saputo cogliere le interconnessioni capaci di regolare i rapporti tra politica e spionaggio, tra comunicazione dei contenuti e la loro commercializzazione pubblicitaria, tra vocazione guerrafondaia e reti d’Intelligence. Oltre ad abbracciare moltissimi generi diversi, cosa che i singoli saggi del volume testimoniano con perizia, prendendosi il dovuto tempo per approfondire i momenti specifici di una filmografia ricchissima.

Dopotutto fa bene e dà non poco ossigeno all’esercizio critico di un pensiero intorno a un cinema così sfaccettato parlare di Tony Scott come di un Warhol ipertrofico, che ha rovesciato il concetto di Art Film (sono parole di Gerosa, nel saggio introduttivo del volume) per fornire una versione elettrizzante e ammiccante, mirata quasi ad istruire le masse che ben pochi contatti potranno avere col cinema art house ma che in compenso consumano molta pubblicità e forme d’espressione affini. Scrive Gerosa: “Fare sperimentazione per il grande pubblico è un discorso controcorrente che raramente viene contemplato. E invece è proprio quello che ha fatto Tony Scott, ribaltando tutte le convenzioni, contraddicendo ogni diktat e creando un cinema d’arte popolare rivolto a tutti, almeno in apparenza. E’ un’operazione democratica quella di Scott, che parte dal linguaggio della pubblicità, che è il medium più vicino alla gente, per alfabetizzare il pubblico nei confronti del cinema d’élite”. Il quadro che il volume mette in luce è dunque quello di un cinema nel mondo e per il mondo, non orientato su se stesso, ma focalizzato sulle linee di intersezione che legano i diversi ambiti dell’universo che c’è fuori. Ed è una prassi lodevole, quella della critica che mette un cineasta in relazione col tempo che ha vissuto (e raccontato), evidenziandone il lato punk di aggressore dell’immaginario ma anche le passioni insolite (Miklós Jancsó, altro regista compianto, come Scott). Molto interessante, oltre che di delicata umanità, è anche la considerazione che fa all’interno del suo testo Marco Toscano, direttore di Duellanti, a proposito dell’idea di un’esteriorità tutta di superficie e costantemente pompata che trova, nel suicidio, una “profondità e fragilità (…) che smette di mostrare i muscoli e scopriamo improvvisamente più vicina a noi, più umana”. Ma il volume va a scandagliare tutti gli aspetti del cinema di Scott, anche i meno noti: Mariangela Sansone, ad esempio, si produce in un’analisi suadente e luccicante di Miriam si sveglia a mezzanotte, orientando il lettore alla comprensione di un’opera difficile e sbertucciata, giocando tra suggestioni e sinestesie; Vito Zagarrio, per citare un altro dei saggi più interessanti del testo, smonta letteralmente in blocchi Una vita al massimo, facendone risaltare il rigore anche nella magmatica esuberanza, la simmetria nell’eccesso sfavillante, tutti elementi che raccontano in modo riassuntivo ma assolutamente rappresentativo il cinema di un regista che ha sempre lavorato per mettere ordine nel caos di una molteplicità di stimoli; o ancora Enrico Carocci, che sulla scorta di David Bordwell analizza il carattere accessorio, “sussidiario” che lo storytelling classico riveste nel cinema furente e sempre in corsa di Scott (il modello di riferimento specifico del suo saggio è Domino). L’ennesimo aspetto modernista e sfrontato dell’arte di un cineasta cui il volume curato da Gerosa provvede a rendere giustizia (e ci auguriamo che molta critica segua il suo esempio di qui a poco), tributando il doveroso omaggio analitico a un regista che viaggiava a una velocità supersonica, unendo al prodigio dell’efficienza una messa a fuoco raziocinante altrettanto sottile e originale. Anche senza essere un genio assoluto della storia della settima arte, va da sé.

Autore: Davide Eustach…
Pubblicato il 14/09/2014

Articoli correlati

Ultimi della categoria