
J’entends plus la guitare è un film di pudica oscenità, che nasce dallo scontro tra l’esposizione, l’offerta spettacolare e il vissuto privato del proprio autore; romanzo di formazione o educazione sentimentale, come definito dallo stesso Philippe Garrel, intervistato per i «Cahiers» da Thierry Jousse, della sua esistenza fantasmatica nel cinema. Una duplicità che riflette l’indole dell’autore, che conosce da vicino i morsi della malinconia e per questo esposto alle stesse estreme contraddizioni dei suoi personaggi che, investiti da onde potenti d’irrequietezza, possono ardere come un fuoco avvampante o tormentarsi nel gelo più intenso. Perché Garrel, prima di essere regista, è partecipe di quello che filma: secondo Gordard egli fa cinema come respira. Ripetendo Artaud, potremmo fargli dire: «Non separo mai il mio pensiero dalla mia vita (…) Là dove altri propongono delle opere io non pretendo che mostrare il mio spirito (…) Non concepisco l’opera come distaccata dalla vita»[1].
Si dice che ogni volta Garrel insegua sé stesso, forse perché ogni volta scopre di non essere riuscito a esprimere quello che avrebbe voluto. E allora riprende da capo, ardente e paziente, sulle tracce del proprio film definitivo che, stando a quanto dichiarato quest’anno a Venezia, sembra dover essere La jalousie. Ma credo che già con J’entends plus la guitare avesse toccato una delle vette del suo percorso registico. Due film, questi, che hanno in comune quello di essere un cortocircuito storico-familiare, dove i fantasmi personali si trasformano in ipotesi di cinema. Per quanto riguarda la regia, Leone d’Argento, del 1991, a dimostrazione del febbrile coinvolgimento dell’autore, della sua esigenza di provare a tornare indietro e rifare anche solo un istante del già passato, ci sono le dichiarazioni dello stesso Garrel: «La vera ragione del film è la morte di Nico – chanteuse dei Velvet Underground, per dieci anni sua musa e compagna – avvenuta poco prima delle riprese di Les baisers de secours. Avevo urgenza di fare un film dedicato a Nico. Ma questo non me l’ha restituita viva». E ancora: «La chitarra è uno strumento feticcio della gioventù… non sento più la chitarra vuol dire, in fondo, ho perduto la mia giovinezza». Superata la fase del lutto e del cordoglio, il regista è pronto a confrontarsi con la limpidezza arrochita del suo pianto; individuare il dolore primario, profondo e personale per riuscire a esorcizzarlo. Ma perché si possa avviare a un processo di riparazione occorre che la perdita sia totale, e come tale percepita. Infatti, solamente dopo che si è realizzata la scomparsa, è possibile trovare dei correlativi oggettivi, delle soluzioni stilistico-formali che permettano l’elaborazione.
J’entends plus la guitare è un film sulla perdita dell’amore, dell’altro, ma soprattutto di sé. Non c’è una storia a determinare gli atteggiamenti dei personaggi, anche perché non ci sono dei personaggi, ma uomini e donne e una storia che nasce dai loro corpi. I quattro protagonisti non fanno nulla, parlano, di sé e dei loro rapporti, semplicemente vivono, rivelando la loro interiorità attraverso il comportamento. Garrel non esibisce acutezze d’intreccio, segue l’automatico intrico dei loro destini; si concentra sulle piccole captazioni di sguardo, sulle sfumature tattili per indagare la nascita di un sentimento o i soprassalti di desiderio; sugli abbracci, di cui il suo cinema è sempre ricolmo, tra corpi vicini e rotture tra corpi che diventano distanti. Nel film manca qualsiasi riferimento a una cronologia precisa: non si può dire per quanti anni si svolga la storia di questi incontri e separazioni. Si sta di fronte, come ha scritto Enrico Ghezzi, alla «leggerezza vissuta che si accumula fino a pesare insostenibilmente». J’entends plus la guitare è costruito attorno a ellissi indefinite, falsi raccordi. Garrel non satura i buchi, le mancanze, tanto sul piano strutturale quanto su quello figurale. Mostra come all’interno dell’immagine stessa vi sia, dell’impresentabile, manifesta l’impossibilità di una visione piena e totalizzante: muri mostrati per brandelli, crepe che affiorano nelle pareti, pietrificazione dei corpi e l’attenzione rivolta all’espressività dei volti, di cui traccia delle vere e proprie cartografie. Rende visibile il reale di una perdita che ci viene restituita per frammenti, perché, parafrasando la giustificazione che Martin dà a Lola circa l’impossibilità di ritrarla, ci sono tanti livelli di realtà. Un’infinità di livelli diversi. E noi le siamo troppo vicino, da non essere neanche capaci di guardarla, di vederla interamente. In Martin ritroviamo una delle costanti del cinema di Garrel e cioè l’importanza primaria accordata al ruolo della visione attraverso la messinscena di uno sguardo che si fa sempre portatore di senso.
Si è detto che J’entends plus la guitare è un film sulla perdita, sul disinnamoramento, perché dell’amore, invece, come sostiene Marianne/Nico non si può dire e allo stesso modo per Garrel è tutto quello che bazinianamente non si può mostrare. Proprio come la morte, e infatti sia l’una che l’altra nel film non sono mai esibite. «Come la morte, l’amore si vive e non si rappresenta […] almeno non lo si rappresenta senza violazione della sua natura»[2]. Amore e morte sono sostanzialmente indicibili e infilmabili, ma comunque evocabili proprio lavorando sulla loro assenza, trasformando lo scarto, concentrando l’attenzione su ciò che sta “tra” le immagini, verso l’invisibile in quanto potenziale nascosto che determina e costruisce il visibile. Garrel, e anche in questo si mostra profondamente baziniano, esalta il potere centrifugo del cinema, che si struttura proprio in funzione dell’invisibile ed in virtù del quale tutti sembrano attirati da un centro di attrazione che è fuori dall’immagine, oltre i bordi e i lembi dello schermo. «Riprendendo la definizione di Valery, si potrebbe dire del cinema – di Garrel – che esso è un’esitazione prolungata tra l’immagine e il senso. […] Non si tratta di una pausa, quanto di una potenza di arresto che lavora dall’interno dell’immagine stessa»[3].
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[1] Antonin Artaud, Position de la chair, O.C., I**, Gallimard, Parigi, p. 50. (in Carlo Pasi, Artaud attore, La Casa Usher, Firenze 1989, p. 30)
[2] Andrè Bazin, Morte ogni pomeriggio (1949-1951), in Che cos’è il cinema?, Garzanti, Milano 1999, p. 32
[3] Giorgio Agamben, Il cinema di Guy Debord, in Guy Debord (contro) il cinema, a cura di Enrico Grezzi, Roberto Turigliatto, Il Castoro, Milano 2001, p. 106